NELLE PAROLE DI NIETZSCHE UN'ANTITESI RADICALE AI VALORI DEL MONDO MODERNO (contributi per la riflessione, in Antologia Filosofica)


L'uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo, una fune sopra l'abisso.
Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardare indietro, un pericoloso rabbrividire e arrestarsi.
Ciò c'è grande nell'uomo è d'essere un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell'uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto.
Amo quelli che non sanno vivere che per sparire, poiché son coloro, appunto, che vanno al di là. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)

 

Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi.

(...) Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la nozione di "buono", sono gli stati di elevazione e di fierezza dell'anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L'uomo nobile separa da sè quegli individui nei quali si esprime il contrario di stati d'elevazione e di fierezza - egli li disprezza. (...) E' disprezzato il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta utilità; similmente lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia maltrattare, l'elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore - è una convinzione basilare di tutti gli aristocratici che il popolino sia mendace. "Noi veritieri" - così i nobili chiamavano se stessi nell'antica Grecia. (...)

L'uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è "quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso", conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. (…)

Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede nella pietà o nell'agire altruistico o nel desintéressment l'elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l'orgoglio di sé, una radicale inimicizia e ironia verso il "disinteresse" sono compresi nella morale aristocratica, esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di simpatia e al "calore del cuore" (…)

Ma soprattutto una morale dei dominatori è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio che si hanno doveri unicamente verso i propri simili; che nei riguardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli estranei sia lecito agire a proprio piacere o "come vuole il cuore" e comunque sempre "al di là del bene e del male": è sotto quest'ultimo aspetto che possono avere il proprio posto la compassione o altre cose del genere.

La capacità e l'obbligo di una lunga gratitudine e di una lunga vendetta – le due cose solo entro la sfera dei prorpi simili – la sottigliezza nella rappresaglia, l'affinamento dell'idea di amicizia, una certa necessità di avere dei nemici (come canale di deflusso, per così dire, per le passioni dell'invidia, della litigiosità, della tracotanza – in fondo per poter essere buoni amici): tutti questi sono caratteri tipici della morale aristocratica, la quale, come ho accennato, non è la morale delle "idee moderne", ed è per questo che oggi risulta difficile sentirla ancora, come pure disseppellirla o discoprirla.

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Diversamente stanno le cose per il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi.

Posto che gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l'elemento omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Possibilmente troverà espressione un pessimistico sospetto verso l'intera condizione umana, forse una condanna dell'uomo unitamente alla sua condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di "buono" venga tenuto in onore in mezzo a costoro -, vorrebbe persuadersi che tra quelli la felicità non è genuina. All'opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l'esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità, l'umiltà, la gentilezza a essere poste in onore – giacché sono queste, ora, la qualità più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell'esistenza.

La morale degli schiavi è essenzialmente una morale utilitaria.

(…) Deve allora aver suoni aspri e tutt'altro che gradevoli agli orecchi la nostra rinnovata insistenza nel dire che è l'istinto dell'uomo animale d'armento quel che in lui crede di saperne abbastanza a questo proposito, che celebra se stesso con la lode e il biasimo e chiama se stesso buono: come tale, questo istinto è arrivato a farsi strada, a predominare e a signoreggiare sugli altri e guadagna sempre più terreno, in armonia a quel crescente processo di convergenza e di assimilazione fisiologica di cui esso è un sintomo.

La morale è oggi in Europa una morale d'armento, dunque, stando a come intendiamo noi le cose – nient'altro che un solo tipo di morale umana, accanto, avanti e dopo la quale molte altre, soprattutto morali superiori, sono o dovrebbero essere possibili.

Contro una tale "possibilità", contro un tale "dovrebbe", questa morale però si difende con tutte le sue forze: essa si affanna a dire con ostinazione implacabile: "io sono la morale in sé, e non v'è altra morale se non questa!" – anzi, sostenuta da una religione che appagava le più sublimi concupiscenze delle bestie da mandria, lusingandole [il riferimento è alla religione cristiana, n.d.r.], si è giunti al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali troviamo un'espressione sempre maggiormente evidente di questa morale; il movimento democratico costituisce infatti l'eredità di quello cristiano. (…)

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Noi invece, che abbiamo una fede diversa – noi, per i quali il movimento democratico rappresenta non soltanto una forma di decadenza dell'organizzazione politica, ma anche una forma di decadenza, cioè d'immiserimento, dell'uomo stesso, un suo mediocrizzarsi e invilirsi: dove dobbiamo tendere noi, con le nostre speranze? – Verso nuovi filosofi, non c'è altra scelta: verso spiriti abbastanza forti e originali da poter promuovere opposti apprezzamenti di valore e da trasvalutare, capovolgere "valori eterni": verso precursori, verso uomini dell'avvenire che nel presente stringono imperiosamente quel nodo che costringerà la volontà di millenni a prendere nuove strade.

Per insegnare all'uomo che l'avvenire dell'uomo è la sua volontà, è subordinato a un volere umano, e per preparare grandi rischi e tentativi totali di disciplina e d'allevamento, allo scopo di mettere in tal modo fine a quell'orribile dominio dell'assurdo e del caso che fino ad oggi ha avuto il nome di "storia" – l'assurdo del "maggior numero" è soltanto la sua forma ultima -: per questo sarà, a un certo momento, necessaria una nuova specie di filosofi e di reggitori, di fronte ai quali tutti gli spiriti nascosti, terribili e benigni, esistiti sulla terra, sembreranno immagini pallide e imbastardite.

E' l'immagine di tali condottieri che si libra dinanzi ai nostri occhi: posso dirlo forte a voi, spiriti liberi? Le circostanze che si dovrebbe in parte creare, in parte utilizzare, perché essi sorgano; le vie e le prove presumibili, in virtù delle quali un'anima potrebbe crescere sino a un'altezza e a una forza tali da sentire la costrizione verso questi compiti; una trasvalutazione dei valori, sotto il nuovo torchio e martello della quale una coscienza verrebbe temprata e un cuore trasmutato in bronzo, così da poter sopportare il peso di una nuova responsabilità; e d'altro canto la necessità di tali condottieri, il tremendo pericolo che essi possano non giungere, o fallire, o degenerare – queste sono le nostre vere ambasce e abbuiamenti, lo sapete voi, voi, spiriti liberi?

(…) Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano; essi affermano "così deve essere!": essi determinano in primo luogo il "dove" e l' "a che scopo" degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza.

- Esitono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male,
Sils-Maria, Engandina, 1886