GLI EFFETTI DI ANTICHE TECNICHE MEDITATIVE SVELATI DALLE NUOVE TECNOLOGIE
di Danilo Di Diodoro, Corriere della Sera, 31 marzo 2012
http://www.corriere.it/salute/12_marzo_31/meditazione-problemi-psichici-diodoro_1e4d92b4-2194-11e1-97f3-fb4c853f7d5d.shtml
Alcune pratiche di meditazione riescono a «spegnere» l’attività di un’area cerebrale responsabile dell’insorgere nella mente di ansietà e preoccupazioni sul futuro e dell’incapacità di concentrarsi semplicemente sul presente. Lo indica una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences da parte di un gruppo di studiosi americani guidati dal professor Judson Brewer del Department of Psychiatry della Yale University School of Medicine di New Haven.
L’area cerebrale in questione è indicata da una sigla, DMN, che sta per Default Mode Network. In pratica si tratta di una sorta di motore interno automatico di pensieri che genera quel continuo emergere nella mente di idee, ricordi, immagini, timori; insomma tutto quello che spontaneamente affiora alla coscienza e che può andare a interferire con ciò che si starebbe facendo in quel momento. Questa attività è presente in circa la metà del tempo della veglia e può far affiorare spesso pensieri sgradevoli, sia provenienti sia dal passato sia proiettati nel futuro, e contribuire a creare stati d’ansia e di depressione.
La ricerca ha dimostrato, tramite l’utilizzo della Risonanza Magnetica Funzionale del cervello, che persone esperte in alcune tecniche di meditazione riescono a smorzare l’attività delle aree cerebrali che fanno parte del DMN, come la corteccia cingolata e la corteccia prefrontale mediale. Non solo, ma rispetto a persone non esperte in queste tecniche, gli esperti hanno un’attività del DMN decisamente ridotta anche al di fuori dei periodi di meditazione, come se l’allenamento trasferisse i suoi effetti al di là dei soli momenti di esercizio.
Lo studio ha preso in esame tre diverse tecniche di meditazione, rispettivamente chiamate Concentrazione, Amare-gentilezza, Consapevolezza senza scelta. La prima è una tecnica nella quale il soggetto si concentra sul respiro, e quando arrivano pensieri si distoglie da essi gentilmente ma in maniera ferma; la seconda è una tecnica in cui il soggetto pensa attivamente a un momento in cui ha desiderato il bene di qualcuno e lo utilizza come modello per desiderare il bene degli altri; la terza è una tecnica in cui il soggetto presta attenzione a tutto quello che arriva momento per momento alla coscienza, senza tentare di modificarlo o di allontanarsene, finché non giunge spontaneamente un altro pensiero. I soggetti studiati sono stati dodici esperti in tali tecniche che sono stati confrontati per mezzo della Risonanza Magnetica Funzionale con tredici volontari che non avevano esperienza di meditazione.
Secondo il professor Brewer, oltre a gettare un’interessante luce sui meccanismi neurobiologici di alcune tecniche di meditazione, i risultati di questo studio aprirebbero possibili scenari nell’utilizzo della meditazione come trattamento per alcuni disturbi psichici nei quali sembra essere coinvolto il DMN. Ad esempio il cosiddetto Disturbo da deficit di attenzione, per il quale già esistono alcune sperimentazioni che indicano come tecniche di meditazione potrebbero ridurre lo stato di disattenzione. Un’iperattività del DMN è stata rilevata anche nella demenza di Alzheimer, e potrebbe essere responsabile della deposizione nelle cellule cerebrali di una sostanza chiamata "beta-amiloide", tipica appunto di questa forma di demenza. L’uso di tecniche di meditazione potrebbe dunque “spegnere” questa iperattività e avere un possibile effetto protettivo.
Ulteriori ricerche sono però necessarie prima di giungere a conclusioni definitive, come ricorda lo stesso professor Brewer: «I risultati del nostro studio suggeriscono che la meditazione è capace di ridurre l’attività del DMN in maniera relativamente specifica e che il sistema è semplice da utilizzare e a basso costo; inoltre la meditazione ha anche il vantaggio di essere accessibile a molte persone a prescindere dal loro livello di istruzione e dalla loro situazione socio-economica. Naturalmente, studi prospettici saranno importanti nel determinare se essa può davvero rinviare l’inizio della demenza di Alzheimer».
Danilo Di Diodoro,
Corriere della Sera, 31 marzo 2012