Questa rubrica contiene articoli e interventi miei o altrui a carattere culturale, artistico e spirituale, volti a definire dei possibili spunti di ricerca e di riflessione nei diversi campi del pensiero umano, come una sorta di pars costruens intorno ad argomenti di particolare interesse, in essa variamente rappresentati: i miei sono firmati tramite data e indirizzo web a fondo pagina, gli altri hanno l'indicazione dell'autore o del sito relativo subito dopo il titolo.

L'importanza della cultura e dell'arte nella ricerca spirituale del nostro tempo appare del resto centrale per la formazione di una coscienza individuale e collettiva, poiché ci fornisce un'immagine chiara di ciò che pensano, dicono o fanno gli esseri umani intorno a noi: dopodiché, fermarsi a tal punto e accontentarsi di ciò può essere inutile e fuorviante, poiché ci dà l'illusione che una comprensione mentale della realtà sia di per sé sufficiente a cambiarla - il che non è vero, come ben tutti sappiamo.

Ma senza un'analisi a monte e uno studio condotto anche sul piano intellettuale non è comunque possibile andare molto lontano, perché si rischia di rimanere inchiodati a banalità di ogni tipo, di cui il nostro tempo è un esempio: quindi è auspicabile unire fra loro la mente e il cuore, la fede e la scienza, l'intuizione e il pensiero per dedicarci umilmente alla ricerca interiore, senza pregiudizi né veti posti a sbarrarci la strada.

E' questo infatti lo scopo di questa rubrica: per essere pronti ad agire, quando il momento verrà.

L'unica cultura che riconosco è quella delle idee che diventano azioni. (Ezra Pound)

Roma, 13 Settembre 2013

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L'Intifada dei coltelli

Categoria: Dissonanze Lunedì, 16 Novembre 2015 Scritto da Pierluigi Gallo Ziffer Stampa Email
E' SUFFICIENTE LA PAROLA INTIFADA PER GIUSTIFICARE LA VIOLENZA QUOTIDIANA IN ISRAELE? CIASCUNO PROVI, IN CUOR SUO, A DARSI UNA RISPOSTA, MAGARI CON UN MINIMO DI ONESTA' INTELLETTUALE
 

Considerati in Europa come le vittime sacrificali per eccellenza, quando si spostano in Asia per costruirvi uno Stato (sotto la benedizione dell'ONU, nda) gli ebrei divengono automaticamente carnefici, costretti a scusarsi e a discolparsi col mondo intero per il solo fatto di esistere, per una sorta di colpa originaria cui non ci si può sottrarre.

Dov'è l'inganno in tutto ciò?

Voglio subito dire, a scanso di equivoci, che personalmente ritengo, nella mia ignoranza, che la questione palestinese vada assolutamente risolta, senza se e senza ma: sul come, sul chi o sul quando possiamo discutere all'infinito, ma non c'è dubbio che questo problema vada risolto e dissolto una volta per tutte.

Dopodiché, fatte salve tutte le considerazioni possibili sull'impotenza e il rancore dei palestinesi, sulla politica degli insediamenti in Cisgiordania e West Bank o sul ruolo della CIA e del Mossad nell'esplosione della crisi siriana, io mi domando in cuor mio:

è sufficiente tutto questo per giustificare e comprendere la nuova ondata di violenza in Israele, la cosiddetta "Intifada dei coltelli", diretta contro civili inermi – oltre che militari – al solo scopo di uccidere e seminare il panico, ovunque e comunque, senza distinzioni di sorta?

Esiste forse una differenza sostanziale fra queste azioni in Israele e le altre forme del terrorismo globale? E' mai esistita – mi sento di aggiungere – una differenza sostanziale anche in passato, che le giustificasse in nome di una qualche nobile causa?

C'è ancora qualcuno che si ricordi, ad esempio, della strage di Monaco nel '72 e di quelle Olimpiadi macchiate di sangue? E quante furono le giustificazioni e i distinguo, anche allora?

E ancora: è sufficiente la periodica condanna internazionale della politica israeliana per rendere legittimo tutto ciò? Oppure, per caso, qualunque cosa compiuta da ebrei è sempre colpevole, a prescindere?

Che strano destino, del resto, è codesto: in quanto ebrei vengono amati e ammirati, ma come israeliani vengono odiati e accusati - uno strano mistero davvero!

Da parte mia, viceversa, più mi dissocio personalmente, e nel contempo mi indigno, per una politica sconsiderata come quella degli insediamenti in Cisgiordania, più mi meraviglio – non so trovare parola migliore – per l'incapacità occidentale di riconoscere la sofferenza di Israele, la sua sofferenza tout court intendo dire, senza  necessità di addurre giustificazioni o distinguo.

Generazioni intere di cittadini che nascono, invecchiano e muoiono in mezzo alle armi, alla violenza e alle bombe, giorno dopo giorno, anno dopo anno, decennio dopo decennio, lustro dopo lustro, per il solo fatto di voler vivere e sopravvivere in uno Stato sovrano (con tutte le mille contraddizioni del caso, ovviamente): giovani, adulti e anziani, tutti riuniti in uno stesso estenuante destino, che si perpetua negli anni e avvelena la vita e le attese di intere generazioni, non molto dissimili in apparenza da quelle occidentali ma profondamente diverse per il tasso di violenza che le circonda.

Ognuno di noi è chiamato a riflettervi, non fosse altro perché ci ritroviamo ormai tutti nella stessa barca: senza dimenticare, per contro, le parallele sofferenze di quell'altro popolo, quello  palestinese, per cui l'inizio del sogno sionista ha rappresentato la fine di ogni speranza di identità  nazionale.

Ma degli sconfitti sappiamo un po' tutto, e non di rado parteggiamo per loro: per una volta, invece, facciamo qualcosa di inaspettato, immedesimiamoci un po' nei "cattivi", dentro il dolore dei vincitori, e vediamo per caso se hanno un cuore anche loro.

Ne rimarremo stupiti, io credo, e impareremo forse qualcosa.

Roma, 16 Novembre 2015
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