L'UCCISIONE DI TURNO, VOLUTA DAL FATO, CI APPARE COME UN ATTO DI ESTREMA GIUSTIZIA: COME ACHILLE PRIMA DI LUI, ANCHE ENEA VIENE SPINTO A UCCIDERE DALL'IRA CHE GLI CAUSA IL RICORDO DI UN AMICO UCCISO.
SI TRATTA INFATTI DELL'ULTIMA PROVA CHE ENEA DEVE SUPERARE: LA COMPASSIONE PER IL NEMICO VINTO.
Dicendo così, gli affonda furioso il ferro in pieno petto: a quello le membra si sciolgono nel gelo,
e la vita con un gemito fugge sdegnosa fra le ombre.
(Morte di Turno, Virgilio, Eneide Libro XII)
La guerra riprende.
I Latini in fuga si riversano verso la città di Laurento e si chiudono tra le mura. Gli eserciti si fronteggiano ostili, sulla pianura davanti alla città.
Nelle sale del palazzo regale, Turno si rivolge allora al re Latino, dicendo: «Sire, ormai i Troiani hanno la meglio, e fin troppi uomini sono caduti in questa guerra. Combatterò io solo in duello con Enea, e chi vincerà avrà il regno e Lavinia in sposa».
Troiani e Latini stipulano i patti, mentre si prepara il campo per lo scontro.
Ma Giunone, che ancora non si è rassegnata alla vittoria troiana, si reca da Giuturna, la ninfa immortale sorella di Turno, e la esorta a rinviare il duello istigando gli animi dei Rutuli a infrangere i patti e a scatenare di nuovo la guerra.
La ninfa, assunto l’aspetto del guerriero Camerte, si aggira tra i Rutuli e così infiamma i loro animi: «Compagni, vergognatevi! Turno soltanto combatterà con onore, mentre noi da vigliacchi diventeremo sudditi di un signore straniero? Combattiamo fino alla fine!».
Pian piano convince gli animi, e i Rutuli imbracciano le armi.
Ed ecco che un giavellotto nemico colpisce Enea, ferendolo a una gamba. Si leva un grande clamore. La guerra divampa di nuovo, mentre Turno e i suoi fanno strage di nemici.
Anche Enea riprende a combattere, dopo essere stato guarito dalla madre Venere e, ispirato da lei, attacca la città di Laurento. Mentre il panico si diffonde nella città assediata, la regina Amata, consapevole di essere stata la causa prima della guerra, disperata si uccide.
Tutto è deciso.
Allora i Latini si sentono perduti. Anche Turno, ormai capisce che la sua sorte è segnata, e così parla a Giuturna: «Basta, sorella. I campi sono intrisi di sangue latino; questa guerra ci è costata fin troppi morti. Morire con onore non è una sciagura: affronterò Enea e accetterò la mia sorte».
Intanto sull’Olimpo Giove parlava a Giunone, dicendo: «Moglie mia, desisti infine dal tuo terribile odio. Il fato vuole che Enea fondi una stirpe destinata a regnare sul mondo. Il momento è arrivato: lascia che il destino faccia il suo corso».
E Giunone infine accetta, piegandosi al fato.
Il duello tra Turno ed Enea intanto è ripreso, e invano Giuturna, guidando il carro del fratello, più volte lo sottrae al combattimento, cercando invano di ritardare la sua morte.
Ma infine anch’essa comprende che ogni sforzo è ormai vano e si ritira piangente dal campo.
Turno ormai è solo con il suo destino di morte.
Il duello tra Enea e Turno.
Enea di contro incalza e vibra la lancia, enorme, simile a un tronco, e parla con animo feroce: «Ora cos’è questo indugio? Perché ti attardi, o Turno? Non con la corsa, con l’armi crudeli si deve combattere da presso. Trasfòrmati in tutti gli aspetti, raduna quanto vali con l’animo e con l’astuzia; desidera di volare sulle alte stelle, e di racchiuderti nel cavo della terra…».
Quello, scuotendo il capo: «Non le tue superbe parole m’atterriscono, o arrogante; gli dei mi atterriscono e Giove nemico».
E senza dire null’altro, rivolge lo sguardo a un grande macigno, […] l’eroe, afferratolo con mano ansiosa, cercò di scagliarlo sul nemico, ergendosi in alto e preso di corsa l’abbrivio. Ma non si riconobbe nel correre, nel muoversi, nell’alzare la mano e nel librare il possente macigno; le ginocchia vacillano, si rapprende gelido il sangue. Allora la pietra, lanciata dal guerriero nel vuoto, non percorse tutto lo spazio, né portò a termine il colpo.
E come in sogno, di notte, quando una languida quiete grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti; la lingua impotente, le forze consuete del corpo svaniscono, e non escono voce o parole: così a Turno, con qualunque sforzo tenti la via, l’orribile dea nega il successo.
Allora volge nel cuore sentimenti diversi: guarda i Rutuli e la città, e indugia nel timore, e trema all’arrivo del colpo; non sa dove scampare, come assalire il nemico e non vede in nessun luogo il carro e la sorella auriga.
Mentre esitava, Enea brandisce l’asta fatale, calcolando la sorte con gli occhi, e la vibra da lontano. […] Il grande Turno cadde in terra, colpito, con le ginocchia piegate.
Balzano con un grido i Rutuli, e tutto rimbomba il monte d’intorno, e ampiamente i profondi boschi riecheggiano.
Egli da terra, supplice, protendendo lo sguardo e la destra implorante: «L’ho meritato» disse «e non me ne dolgo; profitta della tua fortuna; tuttavia, se il pensiero d’un padre infelice ti tocchi, prego – anche tu avesti un padre, Anchise –, pietà della vecchiaia di Dauno, e rendi me, o se vuoi le membra prive di vita, ai miei. Hai vinto e gli Ausoni mi videro sconfitto tendere le mani; ora Lavinia è tua sposa; non procedere oltre con gli odii».
Ristette fiero nell’armi Enea, volgendo gli occhi, e trattenne la destra; sempre di più il discorso cominciava a piegarlo e a farlo esitare: quando al sommo della spalla apparve l’infausto balteo e rifulsero le cinghie delle note borchie del giovane Pallante, che Turno aveva vinto e abbattuto con una ferita, e portava sulle spalle il trofeo del nemico.
Egli, fissato con gli occhi il ricordo del crudele dolore, e la preda, arso dalla furia, e terribile nell’ira: «Tu, vestito delle spoglie dei miei, vorresti sfuggirmi? Pallante con questa ferita, Pallante t’immola, e si vendica sul sangue scellerato».
Dicendo così, gli affonda furioso il ferro in pieno petto; a quello le membra si sciolgono nel gelo, e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre.
Virgilio, Eneide Libro XII, vv. 887-952
(trad. it. di L. Canali, Mondadori)
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