Musica e bhakti nelle tradizioni dell’India


Là dov'è Krishna, il Signore dello Yoga, la dov'è Arjuna, l'arciere supremo,
quivi è ricchezza, vittoria, successo e moralità. Questa è la mia opinione.
(Bhagavad Gita, 18, 78)


Introduzione

 

Oggi parliamo di “tradizioni musicali dell’India”, e non di Tradizione tout-court, perché questa terra, ricca di diversità artistiche, religiose, culturali e filosofiche di ogni tipo, è stata attraversata nei secoli da innumerevoli popoli, religioni ed etnìe, che ha sempre saputo unire e cementare in un’unità superiore, portandole a identificarsi tutte in quella madrepatria ideale, originaria e ancestrale, che prende tradizionalmente il nome di Maha Bharat (Grande India).

Un esempio di coesistenza pacifica e di tolleranza fra religioni e culture diverse è dato, a questo proposito, dalla presenza sul suolo indiano delle comunità Sikh e Parsi, del Jainismo, del Buddhismo o addirittura del Giudaismo (presente in piccole enclaves nelle regioni del Kashmir e del Kerala), nonché del Sufismo islamico e del Cristianesimo ortodosso, tutte inserite a pieno titolo nella cultura tradizionale indiana e valorizzate e rispettate dallo quello stesso Induismo – plurimillenario cemento unificante dell'identità nazionale – che le considera tutte come manifestazioni diverse di una più ampia civiltà continentale, differenziata e omogenea al tempo stesso, che si rifà in vario modo ai principi immortali del Sanathana Dharma (Legge Eterna).

Unica eccezione a questo stato di cose, manifestatasi in tempi relativamente recenti in seguito all’evangelizzazione cattolica, all'occupazione britannica e alle drammatiche vicende della lotta per l'indipendenza e della bipartizione col Pakistan, è rappresentata dalle versioni “occidentali” dei monoteismi cristiano e islamico (cattolicesimo romano e protestantesimo nel primo caso, integralismo e fondamentalismo musulmano nel secondo), che vengono generalmente percepiti, sulla scìa dell’attuale movimento hindutva di rinascita nazionale, come dei corpi estranei alla cultura atavica, la cui matrice induista originaria, da sempre aperta a tutte quelle comunità che vogliano collegarsi e rapportarsi con essa in modo rispettoso e costruttivo, rimane nel contempo intrinsecamente ostile alle altre.

Tradizioni musicali dell’India, dunque, nel loro rapporto con la spiritualità e la mistica delle grandi religioni di questo Paese: sarà questo l’oggetto della nostra breve disamina odierna, principalmente incentrata sull’analisi del culti bhakti dell’Induismo vaishnava e sul loro rapporto con le manifestazioni artistiche delle tradizioni circostanti.

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Cominciamo quindi il nostro viaggio proprio da una tradizione non induista, rappresentata dal cosiddetto Sikh Dharma, la cui origine va fatta risalire alla figura e all’insegnamento di Guru Baba Nanak, il “profeta della luna piena”, capostipite - a cavallo fra il XV e il XVI secolo - di quella tradizione sincretica fra Induismo e Islamismo da cui prenderà vita, circa due secoli più tardi, la successiva religione sikh.

Primo fra i grandi maestri dell’India mistica a proclamare il principio dell’unità trascendente delle religioni, Guru Baba Nanak stabilì la pratica del namasankirtan, o canto devozionale collettivo, come base per l'esperienza spirituale dei propri discepoli, invitando i fedeli induisti e islamici a superare in tal modo le rispettive rivalità religiose in uno spirito di unità e fratellanza: e numerosi furono dopo di lui, lungo il corso dei secoli, i casi di contatto e di fusione fra i culti bhakti induisti e le pratiche sufi  islamiche, testimoniati da personaggi come Kabir, Hazrat Mujahiddin Chisti, Sri Ramakrishna e Shirdi Sai Baba, che promossero a vario titolo le pratiche mistiche e devozionali delle due religioni attraverso la musica, il canto e non di rado la danza.

Ma la tradizione spirituale in cui maggiormente si è espressa la dimensione più propriamente estatica e contemplativa della mistica bhakti  è senza dubbio quella inaugurata dal grande santo vaishnava Sri Krishna Chaitanya Mahaprabhu, contemporaneo di Guru Nanak, che stabilì nella valle del Gange la pratica del sankirtan collettivo, resa famosa in Occidente, molti secoli più tardi e in forma perlopiù spuria, dal Movimento per la Coscienza di Krishna (ISKON).

Quelli che dunque consideriamo attualmente come fenomeni pittoreschi di "fervore metropolitano", testimoniati dalle musiche e danze dei cosiddetti hare krishna, sono in realtà l’ultima propaggine in Occidente di una tradizione spirituale di grande rilievo nella storia della mistica hindu, le cui caratteristiche peculiari sono state codificate e ritualizzate come effettive pratiche di realizzazione spirituale dallo stesso Chaitanya, con piena coscienza del loro valore.

L’importanza della musica e della danza devozionale si può ritrovare ampiamente, del resto, anche nelle vicende terrene del Signore Krishna, quando nello Srimad Bhagavatam e negli altri testi vaishnava  viene descritto il rapporto fra questi e le gopi  (le pastorelle di Vrindavan, sue prime e più grandi devote), in cui la danza estatica, il canto e il suono trascendentale del flauto divino rappresentano il perno attorno cui ruota l’intera esperienza mistica del devoto, perduto in estasi ai Piedi del Maestro e in costante contatto con la Sua essenza spirituale, intraducibile in concetti e in parole ma solo in suoni, gesti e movimenti di danza.

Il rapporto fra l’indiano e il Divino attraverso la musica e il canto devozionale non si esaurisce qui, tuttavia: tralasciando in questa sede ogni possibile accenno a tutto il complesso dei trattati vedici e upanishadici sui diversi stili e aspetti della musica classica vocale e strumentale dell’India del Nord, veniamo ora a considerare brevemente, in conclusione di questa nostra sommaria introduzione, la pratica devozionale e musicale specifica dell’India del Sud, universalmente conosciuta col nome di bhajan.

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Con questo termine s'intende infatti una pratica diffusa in realtà in tutta l'India, ma particolarmente presente nelle regioni del Sud, il cui scopo è porre in contatto il devoto con la divinità prescelta (Ishta Devata), mediante un atteggiamento di resa e di interiore abbandono, superando in tal modo ogni ostacolo di natura intellettuale o concettuale che possa frapporsi fra esso e il Signore e permettendo così, anche alle persone più semplici, di compiere un’esperienza mistica dal carattere fortemente emotivo e catartico.

Radunati in piccoli gruppi musicali di villaggio o in vaste adunanze pubbliche sul sagrato dei templi, i fedeli dravidici celebrano dunque, attraverso il canto dei bhajans collettivi, gli attributi e le storie divine, o anche più comunemente i sacri nomi delle rispettive divinità, tramite canti popolari dal sapore semplice e spontaneo, spesso a carattere antifonale, che si susseguono ininterrottamente per ore.

Quale gioia e quale entusiasmo vediamo dunque trasparire dai volti e dai gesti di questi devoti, quando in tutta semplicità e partecipazione s’immergono in estasi nel bhajan di gruppo, per poi tornare sereni alle proprie faccende quotidiane, avendo adempiuto in tal modo alle prescrizioni delle Scritture sulla necessità della rimembranza costante dei Nomi del Signore!

Tanto ci basti, quindi, per ricordare e celebrare in cuor nostro, in conclusione, quella mistica bhakti e quel fervore devozionale che la metafisica hindu ci ha tramandato nei secoli, in cui la musica e il canto rivestono un ruolo centrale come vie di realizzazione interiore e di manifestazione esteriore: perché "la Verità è una, anche se i saggi la chiamano con molti Nomi" (Rig Veda), e i fedeli dell'India questo lo sanno da sempre.

 

Prima Parte: La Bhakti

 

Cominciamo dunque a osservare un po' più da vicino cosa s'intende per bhakti, focalizzando la nostra attenzione, come abbiamo già detto, sulle tradizioni musicali a carattere devozionale presenti all'interno di quel vero e proprio universo che è il subcontinente indiano, con il suo caleidoscopio di popoli, religioni e culture diverse, tutte accomunate da un'identica forma di orientamento tradizionale, rappresentata dal cosiddetto Sanathana Dharma, o Legge Eterna, interpretato e adottato dai vari popoli e religioni locali come collante comune di quella civiltà plurimillenaria e ancestrale tradizionalmente conosciuta come Mahabharath, o Grande India.

Si tratta evidentemente di un argomento "di nicchia" all'interno del più vasto campo della musica e civiltà tradizionali dell'India, che riveste tuttavia una grande importanza per la ricerca artistica e spirituale del nostro tempo, in cui il concetto di bhakti  è stato spesso decisamente banalizzato dalla modernità occidentale di stampo new age, e di conseguenza è necessario restituirgli quella dignità e quella complessità che con il tempo sono andate perdute.

Noi conosciamo infatti in Occidente quel che è rimasto di questa antica tradizione unicamente attraverso un'importazione tout court dall'Oriente, compiuta per così dire "prima del diluvio", perché anche in India sta ormai scomparendo molto - se non tutto - di questi antichi retaggi spirituali del passato: il caso più classico di tale processo è rappresentato, come abbiamo detto in precedenza, dai cosiddetti hare krishna, un movimento che affonda le sue radici in una tradizione peraltro del tutto ortodossa della spiritualità indiana, qual è quella dell'Induismo vaishnava, che vede nel suo fondatore, lo swami Bhaktivedanta Prabhupada, un vero e proprio pandit a tutti gli effetti, autore di numerosi commentari vedici e upanishadici nonché di una famosa traduzione e commento alla Bhagavad Gita.

Egli è tuttavia venuto "in missione" in America negli anni Sessanta, adottando le tecniche e le modalità occidentali per divulgare il suo insegnamento fra la gioventù newyorkese e perdendo così la sua natura estatica tradizionale originaria, per acquistarne un'altra, decisamente più pop e maggiormente incline alla trance, sicuramente più adatta alla mentalità d'oltreoceano: ecco quindi che le conoscenze e le tradizioni ancestrali dell'India vedica entrano in contatto con la civiltà moderna e vengono da questa  letteralmente "importate" in Occidente, come un qualsiasi altro prodotto di consumo.

Lo stesso discorso vale quindi anche relativamente alla cosiddetta "via dell'amore", al cosiddetto chakra del cuore, che com'è noto sono posti alla base dell'esperienza spirituale bhakti, termini che in Occidente vengono ormai del tutto inflazionati e banalizzati, come purtroppo sappiamo: parafrasando infatti Hannah Arendt, personalmente mi sentirei di parlare di una vera e propria "banalità del bene" per quanto riguarda la strumentalizzazione e manipolazione attuale del concetto di amore, ormai diventato un non sense assoluto, fatto di luoghi comuni e di parole totalmente prive di esperienza diretta. Ciò vale quindi anche, e soprattutto, per il concetto di bhakti.

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Qual è infatti l'idea che sta alla base di questo termine, autorevolmente stabilita in senso tradizionale dal pensiero metafisico e spirituale dell'India? L'idea di fondo è che la conoscenza spirituale, per essere valida, deve passare attraverso il cuore, inteso non tanto come organo della sensibilità individuale, a carattere emotivo o passionale, quanto piuttosto  come centro di coscienza galattico, a carattere cosmico e universale: esso è chiamato dagli indù rhdayam ed è molto diverso dal cuore fisico, sede delle emozioni, in quanto il suo scopo è quello di esprimere prema, cioè l'amore spirituale.

L'esperienza ricercata dal devoto mediante il cuore è infatti, in questo caso, di tipo non-mentale, non-razionale, non-concettuale, e questo non perché venga in qualche modo sminuito o svilito il livello intellettuale di comprensione della realtà, ma semplicemente perché esso non è previsto come mezzo di conoscenza finale: la ricerca di un contatto con il trascendente (che mai come in India è allo stesso tempo anche immanente, poiché nel pensiero indiano trascendenza e immanenza coincidono profondamente) avviene dunque attraverso una  focalizzazione su quella che potremmo chiamare la "coppa del Graal", cioè il cuore inteso come centro di coscienza, come ricetrasmittente cosmica di impulsi stellari.

In tal modo, attraverso la bhakti, il devoto intraprende quindiuna via realizzativa di carattere "eroico", in cui il vira (cioè l'eroe) si sottomette alla devi (cioè la dea), simboleggiando con ciò anche il jivi (cioè l'anima individuale incarnata in un corpo fisico) che si sottomette al paramatman (cioè il principio animico universale), secondo una modalità tipica peraltro di tutti gli Ordini cavallereschi e monastico-militari del passato, sia orientali che occidentali, che presentano sempre un'analoga devozione alla Dama e alla Vergine, alla quale la casta kshatrya offre in devozione la propria vita in battaglia.

E' interessante notare, a questo proposito, come la bhakti espressa dagli Ordini militari tradizionali del passato non abbia alcun carattere di tipo maschilista o superomista, come apparentemente si potrebbe pensare, ma simboleggi al contrario l'abbandono della volontà individuale al Divino affinché la utilizzi per i suoi scopi e per i suoi disegni, com'è mirabilmente espresso anche nella celebre battaglia del Kurukshetra, descritta da Vyasa nella Bhagavad Gita.

Quando infatti Arjuna si mette a pensare, a ragionare e a valutare in termini razionali i pro e i contro della sua azione, allora rallenta l'intero corso della storia umana (e nel contempo divina), costringendo così lo stesso Krishna ad attendere che egli ritorni in se stesso, che rinsavisca e finalmente si "arrenda" (charanam) ai Piedi di Loto del Signore Supremo; quando invece Arjuna, attraverso la resa, si trasforma in una "canna vuota" nelle mani di Krishna, allora il Maestro può finalmente insegnargli lo Yoga della Liberazione e utilizzare il devoto come un mezzo fisico per compiere la Sua Volontà (sankalpa).

Quello stesso Krishna che altrove si manifesta come bambino incantevole, come ladro di  cuori o come amante struggente, seduttore delle gopi al suono divino del suo flauto, compare  adesso come guerriero e auriga, guidando il carro in battaglia e obbligando il devoto a sterminare il nemico, secondo i suoi precisi obblighi di casta: e tutto questo è amore, tutto questo è bhakti, tutto questo è prema, ossia l'offerta di sé a un principio spirituale più alto.

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Quando tutto ciò avviene durante la puja, cioè nel corso del rituale religioso e del culto individuale e collettivo, ecco allora che abbiamo il canto, la musica e la danza devozionale, considerate come vie di superamento dell'Io e della coscienza egoica, nonché come forme di abbandono e di resa interiore ai Piedi di Loto del Signore: Ekhat Sat Viprah Bahuda Vadanti, dicono infatti i Veda, "la Verità è una, i saggi la chiamano con tanti nomi", quindi ci si può accostare a essa in maniere diverse, tutte però indirizzate verso il superamento dell'Io e la sua resa al Divino.

Noi conosciamo in verità in Occidente queste manifestazioni spirituali attraverso delle frasi ormai stereotipate ("mi inchino ai piedi del guru, all is bliss, all is bliss", e via dicendo), trasmesse attraverso l'esperienza dei Beatles o di altri gruppi consimili, che sebbene abbiano avuto una loro effettiva ragion d'essere nella storia musicale degli anni Sessanta costituiscono tuttavia, come abbiamo già detto, un'occidentalizzazione e un'importazione di tematiche che tali non sono, e che hanno quindi un linguaggio e un significato profondamente diverso rispetto alla vulgata modernista corrente.

Se noi dunque vogliamo capire effettivamente quale sia la natura di questa via realizzativa (e non quindi del semplice fenomeno di costume che conosciamo in Occidente) e accostarci ad essa nel modo corretto, allora dobbiamo comprendere tutto ciò attraverso la prospettiva tradizionale hindu, secondo la quale, quando parliamo di bhakti, ci troviamo di fronte a una condizione di annientamento totale della personalità individuale, compiuto durante la puja, il kirtan e i bhajans, azzeramento che – solo - ci permette di compiere l'esperienza del trascendente attraverso l'adorazione, la devozione e l'offerta di sé, nonché ovviamente attraverso la condizione di comunione estatica che ne deriva.


Seconda Parte: L'India del Nord

Due sono, a questo proposito, i personaggi più rappresentativi ed emblematici di questa antica  tradizione bhakti, cui abbiamo accennato in apertura: uno è Guru Baba Nanak, iniziatore della pratica del canto devozionale collettivo nella regione del Punjab nel XV sec., e l'altro è Sri Krishna Chaitanya Mahaprabhu, chiamato anche l'"avatar dorato" (perché di carnagione chiara), vissuto nel Nord dell'India più o meno nello stesso periodo.

Soffermiamoci un po' sulla figura di quest'ultimo, che considero personalmente esemplare ai fini del nostro discorso, una vera e propria incarnazione della bhakti di Krishna in forma umana: quando Chaitanya istituì la pratica del sankirtan collettivo nel Bengala occidentale, infatti, istituì dei gruppi di sedici musicisti-cantori ciascuno, che dovevano andare in giro per i villaggi a tramettere l'essenza dell'insegnamento vaishnava attraverso il suono: la "sostanza" afferisce dunque, in questo caso, all'intelletto, che giustamente deve comprendere razionalmente le cose (e difatti Chaitanya era un pandit, come vedremo meglio fra poco), ma "l'essenza" è un'altra cosa, e ha piuttosto una certa assonanza con quella che in termini francescani viene definita come semplicitas (da non confondersi con il sentimentalismo buonista dei nostri giorni, che è ovviamente tutt'altra cosa).

Semplicitas francescana, dunque, intesa come essenza dell'insegnamento del giullare Francesco, e bhakti vaishnava, trasmessa attraverso il suono, intesa come essenza dell'insegnamento del giullare Chaitanya: in questa maniera l'aspetto universalistico del culto di Krishna (quello cioè che va oltre le varnas, oltre le divisioni, i regolamenti e le prescrizioni di casta) viene raggiunto attraverso la scoperta di questa "essenza" spirituale della bhakti nel proprio cuore, attraverso la quale tutti i devoti presenti alla puja partecipano per esperienza diretta (non dunque soltanto a parole), realizzando così in se stessi la "Coscienza di Krishna" attraverso il canto, la musica e la danza devozionale, che tendono appunto a creare una dimensione di semplicità e di abbandono, molto simile a quella del bambino nelle braccia della madre, con quel medesimo senso di affidamento, di fiducia e in qualche modo di "fede" in un potere spirituale più alto.

Dobbiamo ricordare infatti, come ho già detto, che Chaitanya era un pandit, cioè un erudito di alto livello, intento per lungo tempo a girare in pellegrinaggio per i vari santuari e centri spirituali della pianura gangetica per incontrare altri pandit come lui e per discutere con loro le Sacre Scritture, come si faceva allora fra eruditi e sapienti: a un certo punto però egli capì che la sua strada era un'altra, non diretta più verso lo studio "sostanziale" dell'insegnamento vedantico ma verso la conoscenza "essenziale" dell'esperienza trascendentale in esso contenuta, verso cioè la Coscienza di Krishna, ottenibile solo attraverso il canto e la danza estatica, che cancellano ogni traccia di separazione e di differenza fra il devoto e Dio.

Il devoto, si badi bene, ossia il bhakta: solo fra devoti infatti, solo fra coloro che si sono abbandonati a Krishna e vivono unicamente in Lui e per Lui è finalmente superata e trascesa ogni forma di ego, ogni appartenenza di casta, ogni differenza basata sul titolo di studio, sulla diversità di genere e via dicendo; questo porta dunque Chaitanya a una trasformazione totale del suo insegnamento e all'insorgere in lui di uno strano "carisma" (come diremmo noi in Occidente), che consiste nel mandare in estasi i presenti al suono del mahamantra Hare Krishna e dei sacri kirtans.

Il carisma della bhakti vaishnava, infatti, è proprio quello dell'estasi: il famoso studioso Alain Danielou, a questo proposito, ha compiuto in passato uno studio preciso sugli strumenti tradizionali indiani (come ad esempio il mrindangam, il cui suono basso avrebbe la funzione di sottolineare le varie fasi di entrata nell'estasi, agendo sul cuore, oppure i grandi cembali in uso nell'India del Nord, che avrebbero lo scopo di agire sul cervello e di indurre la trance), nonché sul valore estatico del canto come veicolo dell'espressione interiore; altri, come Sri Ramakrishna e lo stesso Guru Nanak, parlano invece del battito delle mani, che avrebbe la funzione di scacciare i pensieri cattivi ("come corvi appollaiati sui rami di un albero") e l'indolenza tamasica del devoto.

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Da non tralasciare, poi, la funzione importantissima della danza, sia a livello individuale che soprattutto di gruppo, come possiamo vedere attualmente fra gli stessi hare krishna, che compiono delle coreografie collettive particolarmente suggestive, con quella caratteristica posizione delle mani alzate verso l'alto, dal forte carattere invocativo e catartico, quasi a trasmettere in chi li osserva l'idea di una ricettività spirituale dal cielo, comune in ciò anche ai dervisci Mevlevi o ad alcuni gesti di benedizione papale, ad esempio, pur se in tutt'altre tradizioni mistiche e religiose: Chaitanya stesso è del resto spesso raffigurato dall'iconografia tradizionale hindu con le mani rivolte verso l'alto, a simboleggiare a un tempo l'elevazione dell'individuo dal basso e la ricezione del Divino dall'alto, come tramite e canale d'unione fra questi due mondi, collegati e uniti fra loro attraverso la danza e il canto devozionale.

Le leggende agiografiche su Chaitanya narrano inoltre questa sua capacità quasi "orfica" di far danzare gli elefanti e le tigri della giungla al suo passaggio, di invertire il corso dei fiumi e di risvegliare l'intera foresta al suono del suo sacro mrindangam o dei suoi magici cembali, così come di convertire perfino i cuori dei musulmani presenti nei villaggi da lui attraversati, che prima gli distruggono per gelosia gli strumenti e poi invece si uniscono a lui nella danza, perduti nell'estasi del sankirtan: ciò peraltro dimostra, in modo quasi paradossale, la particolare ricettività spirituale di quest'ultimi, talvolta addirittura maggiore rispetto a quella dei più tiepidi hindu, quasi vi fosse, nel canto dei kirtans, una sorta di unione e complementarietà fra la bhakti induista e la shakti musulmana, cioè fra la devozione e la forza, l'una in fondo incompleta senza l'altra.

La bhakti senza shakti è infatti impotente, la shakti senza bhakti può diventare violenta: una riflessione utile e interessante per i tormentati tempi moderni, dove dolcezza e forza, gentilezza e fermezza, bontà e decisione paiono ormai definitivamente disgiunti fra loro e, quel che è peggio, perennemente in conflitto e in opposizione costante..

Da sottolineare infine anche come Chaitanya sia considerato, dalla tradizione vaishnava, una vera e propria incarnazione di Krishna, che volle rinascere come devoto per poter gustare la bhakti verso il Divino in prima persona, e poter così conoscere sperimentalmente la bellezza e la dolcezza della devozione umana per Krishna: sembra di ascoltare in ciò quell'aforisma chassidico, appartenente alla tradizione mistica ebraica, secondo cui "chi ha rispettato i precetti per tutta la vita, ma non vi ha mai messo dentro entusiasmo e passione, non gusterà neanche i piaceri del mondo futuro – perché non avendo provato il piacere nell'aldiquà, non potrà provarlo neppure nell'aldilà" (Martin Buber).

Suoni, dunque, ma anche movimenti, sapori, colori e profumi (pensiamo agli incensi), che devono creare un'empatia sottile e sinestetica che conduce all'estasi – e poi il cuore come centro di coscienza profondo, il sentimento come capacità di "sentire l'ente", la bhakti come unica via percorribile per contattare l'essenza…

… a ciò si aggiunga anche il prasad, cioè il cibo benedetto, cucinato dai devoti per i devoti secondo le regole vediche e offerto a Krishna, che viene condiviso fra tutti i presenti, senza alcun carattere sacramentale ma esclusivamente di condivisione e di benedizione spirituale: la compresenza di questi vari elementi contemporaneamente concorre dunque a creare, a trasmettere e a condividere quello stato di estasi trascendentale che è lo scopo finale della pratica devozionale bhakti di questa antica tradizione vaishnava dell'India del Nord.


Terza Parte: L'India del Sud


Fin qui abbiamo trattato esclusivamente un piccolo spicchio della tradizione bhakti dell'India del Nord: non solo Chaitanya, infatti, ma anche Guru Nanak, Mujahiddin Chisti, Sri Ramakrishna e tanti altri maestri di derivazioni diverse appartengono tutti all'area settentrionale del subcontinente indiano, alla cultura spirituale dell'India del Nord. Veniamo ora invece a vedere un po' più da vicino la tradizione spirituale e musicale dell'India del Sud, nella quale tutto diventa in un certo senso più semplice - nel senso cioè di quella semplicitas francesca di cui parlavamo prima.

Cha cosa significa in realtà tutto ciò? Cerchiamo di capirlo meglio insieme, facendo riferimento, ad esempio, alla tradizione spirituale dell'Occidente latino e a un personaggio come S. Antonio da Padova, vero e proprio pandit di matrice cattolica. Egli era infatti l'unico francescano che aveva ricevuto dal Serafico l'autorizzazione a insegnare (a leggere, innanzitutto, perché allora i francescani non potevano possedere alcun libro eccetto il Vangelo, ma poi anche a studiare, a capire e a infine a insegnare) perché era un "puro", e come tale in grado di accostarsi alla mente senza rimanerne contaminato: pensiamo ai simboli caratteristici dell'iconografia antoniana, cioè il giglio, simbolo di purezza, e il libro aperto con sopra Gesù Bambino, simbolo dell'essenza spirituale che scaturisce dall'insegnamento evangelico, distillata e trasmessa dal pandit Antonio come dal pandit Chaitanya.

Tutto ciò costituisce quindi, in un certo senso e forse un po' alla lontana, l'essenza stessa del "francescanesimo spirituale", una corrente di ispirazione templare e gioachimita, cui anche lo stesso Dante era collegato, giunta in qualche maniera fino ai giorni nostri e qui rappresentata, in modo probabilmente un po' inconsapevole, dai cosiddetti Francescani dell'Immacolata, un Ordine poco conosciuto ma molto particolare, con forti caratteristiche bhakti e devozionali, in cui ritroviamo un'analoga capacità e necessità di coniugare, congiungere e attivare a livello sottile l'aspetto radicale e principiale dell'esperienza religiosa (inteso sia come radix che come bija, direbbero gli indiani), che rappresenta quindi, in maniera molto simile alla bhakti induista, un'analoga necessità di abbandono individuale e collettivo al Divino, in cui vengono azzerate totalmente le differenze di casta (che solo lì possono e devono dunque essere azzerate), e in cui tutti sono parimenti fratelli ai Piedi di Loto del Signore Supremo.

Un po' come in un film che tutti noi conosciamo, Marcellino pane e vino, che sembra tanto una robetta per bambini ma che invece, se visto da un punto di vista mistico e simbolico profondo, contiene in sé una grande verità, presente non tanto nel racconto in se stesso quanto piuttosto nell'atmosfera che esso evoca, ossia nel rasa, nel sapore sottile che esso trasmette: solo infatti quando l'essere umano ritorna bambino – ma bambino sul serio, non quindi infantile o stupidamente regressivo, come accade sempre più spesso ai giorni nostri –, in questo suo abbandono nelle braccia del Signore egli diventa dunque un canale, come nel caso delle apparizioni mariane, mediante cui la Coscienza Divina si manifesta ai bambini (Coscienza di Krishna, Coscienza di Cristo o Coscienza Mariana che sia).

Nel momento in cui si compie l'esperienza, infatti, si ridiventa bambini, e nel momento in cui si ridiventa bambini si può compiere davvero l'esperienza: questa è dunque la bhakti, metaforicamente parlando, e la musica, il canto e la danza stanno lì a ricordarci che per unirsi al Signore bisogna giocare, affidarsi e confidarsi con Lui.

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Nel venire dunque ad ascoltare, in conclusione, qualche esempio musicale di bhajan del Sud, voglio anzitutto sottolineare, per meglio introdurre il nostro momento di ascolto, come le musiche devozionali indiane, dal punto di vista estetico e formale, siano generalmente e quasi esclusivamente delle musiche popolari a carattere folklorico, oppure ripetizioni di mantra o eulogie antifonali che non si possono certo paragonare, per complessità e raffinatezza, ai tanti stili diversi della musica indiana colta.

Chi si aspetta dunque di rinvenirvi un valore musicale intrinseco, di natura estetica o formale, rimarrà forse deluso, ma chi vi si accosta con l'atteggiamento interiore che abbiamo descritto (cioè con la giusta kavannàh, come direbbero i chassidim ebraici) allora saprà comprenderla e apprezzarla appieno: ciò a indicare quindi come il veicolo acustico, alla pari di quello coreutico, sia nella bhakti sempre e soltanto un mezzo e mai un fine in se stesso, teso cioè al raggiungimento di una condizione di estasi e di contatto con il Divino che prescinde e trascende l'effettivo valore estetico dell'esecuzione o della rappresentazione artistica.

Non dunque "l'arte per l'arte", come nell'estetica musicale europea, ma l'arte come esperienza animica, in cui il primato è innanzitutto interiore, e solo successivamente esteriore.

Nei lunghi periodi che ho personalmente trascorso negli ashram del Sud India, ad esempio, ho potuto fare esperienza diretta e in prima persona di questa natura interiore dei bhajans, che vi vengono eseguiti quotidianamente almeno due volte al giorno, e rappresentano quindi, in un certo senso, la "colonna sonora" della vita stessa nell'ashram: alcuni giorni essi sono interessanti, altri invece mortalmente noiosi, e ciò non dipende da altri fattori se non quelli della nostra personale condizione interiore. Cosa fa sì, infatti, che il giorno prima essi si presentino come una stanca routine e il giorno dopo invece come un'esperienza profonda e toccante, e il giorno dopo ancora come di nuovo routine? Solo e unicamente l'atteggiamento interiore con cui noi ci accostiamo ad essi, e nient'altro.

Se accade infatti qualcosa che ci porta a interiorizzarci, o che ci provoca qualche scompiglio interiore, o qualche evento che suscita in noi un'emozione, un ricordo o un sentimento rimosso, allora il canto dei bhajans diventa per noi un'esperienza indimenticabile, e per così dire voliamo sulle ali del ritmo, dei suoni e dei canti per purificarci e lavarci in questa esperienza profonda, un po' come quando ascoltiamo la nostra "canzone preferita", quella che ci ricorda un amore o un dolore passato, o che ci tocca delle corde interiori e ci accompagna e ci guida nel nostro vissuto: se invece siamo freddi e distratti, e non ci immergiamo in noi stessi per scivolare nel canto ma ci soffermiamo sull'uscio senza coinvolgerci troppo, allora i bhajans diventano una noia mortale e perdono totalmente di senso e di attrattiva.

Quando infatti questi canti devozionali collettivi, in altri momenti estremamente noiosi, entrano nel nostro quotidiano attraverso le alterne vicende della nostra vita, essi lavorano sulle nostre emozioni, sui sentimenti e sui processi mentali, e in un certo senso cominciano a parlarci e a creare per noi una sorta di lavacro acustico, di confessione sonora, per cui attraverso il suono dei bhajans noi sperimentiamo direttamente, in prima persona, la "nullità" dell'uomo di fronte al Divino, la cui gloria è evocata acusticamente attraverso il canto affinché l'uomo si "commuova" (cioè si muova "con") e rientri in se stesso.

E così tu ti "commuovi", come ci si commuove di fronte a Marcellino pane e vino, come ci si commuove di fronte alla nostra vita, fatta di tante ferite e delusioni ma anche di tanti affetti e ricordi felici, come ci si commuove di fronte alla nostra madre malata, al nostro figlio che nasce, e così via dicendo: tutte cose che vengono ormai totalmente banalizzate, in questo kali yuga imperante, e trasformate in luoghi comuni sticchevoli e senza senso, ma che invece un senso ce l'hanno - e ce l'hanno eccome - come sapevano bene, e grazie a Dio ancora sanno, tutti coloro che sinceramente ricercano una Verità superiore.

Non è infatti importante sapere se questa musica sia bella o brutta, o quanto sia colta, raffinata e solenne, solo è importante ascoltare, cantare e fluire con essa senza pensare né giudicare, lasciandosi trasportare dalle sue note incalzanti per compiere insieme un'esperienza interiore: perché questa è la bhakti, l'antica via spirituale della tradizione indiana, una via di tutti e per tutti, che prescinde e dissolve le differenze di casta, di pelle e di censo, azzerando ogni cosa nella Coscienza di Krishna.

Accostiamoci dunque insieme, a questo punto, ai sacri bhajans del Sud, e rivolgiamo la nostra attenzione a questi canti devozionali così popolari, così forse ingenui e in apparenza infantili, con i quali chiudiamo il parlato e apriamo le orecchie, e insieme a esse anche il cuore: un sincero ringraziamento quindi a tutti voi e buon ascolto profondo di queste musiche bhakti.

A.C. Simmetria, Roma 25 Gennaio 2016
http://www.simmetria.org/simmetrianew/contenuti/articoli/56-spiritualita-e-mistica/929-musica-e-bhakti-nelle-tradizioni-dellindia-di-plgallo.html