Questa rubrica contiene articoli e interventi miei o altrui a carattere culturale, artistico e spirituale, volti a definire dei possibili spunti di ricerca e di riflessione nei diversi campi del pensiero umano, come una sorta di pars costruens intorno ad argomenti di particolare interesse, in essa variamente rappresentati: i miei sono firmati tramite data e indirizzo web a fondo pagina, gli altri hanno l'indicazione dell'autore o del sito relativo subito dopo il titolo.

L'importanza della cultura e dell'arte nella ricerca spirituale del nostro tempo appare del resto centrale per la formazione di una coscienza individuale e collettiva, poiché ci fornisce un'immagine chiara di ciò che pensano, dicono o fanno gli esseri umani intorno a noi: dopodiché, fermarsi a tal punto e accontentarsi di ciò può essere inutile e fuorviante, poiché ci dà l'illusione che una comprensione mentale della realtà sia di per sé sufficiente a cambiarla - il che non è vero, come ben tutti sappiamo.

Ma senza un'analisi a monte e uno studio condotto anche sul piano intellettuale non è comunque possibile andare molto lontano, perché si rischia di rimanere inchiodati a banalità di ogni tipo, di cui il nostro tempo è un esempio: quindi è auspicabile unire fra loro la mente e il cuore, la fede e la scienza, l'intuizione e il pensiero per dedicarci umilmente alla ricerca interiore, senza pregiudizi né veti posti a sbarrarci la strada.

E' questo infatti lo scopo di questa rubrica: per essere pronti ad agire, quando il momento verrà.

L'unica cultura che riconosco è quella delle idee che diventano azioni. (Ezra Pound)

Roma, 13 Settembre 2013

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Appuntamento con la Storia

Categoria: Risonanze Mercoledì, 28 Maggio 2014 Scritto da Colin Thubron Stampa Email

UNA SUGGESTIVA RIEVOCAZIONE DELLA BATTAGLIA DI LEPANTO (PIUTTOSTO CRUDA, MA EFFICACE)

All'inizio del mese di Settembre 1571 un nunzio papale giungeva a Messina, recando con sé il profetico auspicio di una vittoria della Lega Santa espresso da Pio V. L'alleanza fra Spagna, Venezia e la Chiesa non era stata sciolta: nonostante le sconfitte militari dell'anno precedente e una successiva serie di incidenti diplomatici, il loro accordo ufficioso era stato finalmente confermato. A riprova, nel porto di Messina scintillava una foresta d'alberi. Era senz'altro la flotta più potente mai riunita dalla Cristianità, composta quasi interamente di galee da guerra.

(…) Si narra che una notte, alla flotta raccolta nel porto di Messina, si aggiungesse un'altra nave. Tutta dipinta di nero, con vele nere, scivolò fra i navigli cristiani silenziosa e indisturbata: era la nave del corsaro Karakoch, mandata in ricognizione dagli Ottomani. Tutta la notte perlustrò in lungo e in largo la schiera delle navi, contando galee, galeazze e navi tonde, e prima dell'alba si dileguò senza essere vista.

L'offensiva della Lega Santa ebbe dunque inizio. Poteva definirsi l'ultima Crociata, giacché per un breve, esaltante momento le nazioni cristiane, sempre in lotta tra loro, grazie alla guida di un energico Pontefice si erano alleate contro il potere musulmano che le minacciava da Est e da Sud. Del resto mai prima d'ora i Turchi erano sembrati così numerosi. "Essi ci superano per numero delle navi", diceva don Giovanni d'Austria, comandante della flotta cristiana, "ma non nella qualità degli uomini e dei mezzi. Confidiamo nel Signore perché ci conceda l'agognata vittoria".

(…) Tutti gli ufficiali veneziani, senza eccezione alcuna, erano enormemente ansiosi di combattere, spinti anche dalla volontà di liberare Cipro, dove la città di Famagosta, a quanto se ne sapeva, ancora resisteva eroicamente all'assalto turco.

(…) All'alba del 16 Settembre, esposta al pericolo delle tempeste autunnali ormai imminenti, la flotta alleata mosse dal porto di Messina. (…) Quella stessa notte una scintillante meteora attraversò il cielo, illuminando tutto il mare intorno alla flotta ed esplodendo in tre diverse scìe di fuoco. Per i cristiani quell'evento sarebbe potuto essere la vendetta: per la caduta di Famagosta, avvenuta ormai da un mese.

(…) Due giorni più tardi, quando il cielo si fu rasserenato, la flotta entrò nel porto di Corfù, esattamente due settimane dopo l'attacco dei Turchi. Questi non avevano toccato né il forte né la guarnigione, ma avevano distrutto i villaggi. I soldati cristiani sbarcati per fare rifornimento di acqua e vettovaglie, videro che ogni chiesa era stata profanata: crocefissi spezzati, affreschi rovinati da colpi di scimitarra, gli occhi delle immagini sacre usati come bersagli.

Per l'ultima volta i comandanti della Lega si riunirono in consiglio. Era un appuntamento con la storia.

(…) Durante il consiglio, i comandanti più prudenti, tra i quali Gian Andrea Doria, si dissero decisamente contrari alla battaglia, giacché ritenevano che, qualora la flotta cristiana fosse stata sconfitta, l'intero Mediterraneo sarebbe immediatamente divenuto preda degli infedeli. Tuttavia prevalse il parere contrario della maggioranza: i Veneziani, e con loro i Cavalieri di Malta, si dimostrarono aggressivi fino al punto da minacciare di combattere da soli, e lo stesso don Giovanni d'Austria era fermamente deciso a trascinare i Turchi in battaglia.

(…) La sera del 5 Ottobre un rinnegato turco – probabilmente una spia che faceva il doppio gioco – riferì che la forza turca si era frattanto ridotta a 100 galee e che la pestilenza stava falcidiando gli uomini. A quel punto i cristiani cominciarono a sperare di catturare in un sol colpo la flotta imperiale di Alì Pascià e la squadra algerina di Uluch Alì.

Quella sera stessa giunse una notizia che addolorò e colmò di sdegno i Veneziani: Famagosta era caduta e il vincitore ottomano, violando i patti onorevoli della resa, aveva fatto prigionieri i soldati superstiti della guarnigione: poi aveva fatto mozzare naso e orecchie a Marcantonio Bragadin, il comandante veneziano, e lo aveva costretto a trasportare pietre e terra sulle mura della fortezza, infine lo aveva fatto scorticare vivo davanti alla cattedrale profanata. Neanche questo era bastato a placare i Turchi che, imbottita di paglia la pelle del poveretto, l'avevano posta in groppa a una mucca e l'avevano mandata in processione per la città vinta, sotto un parasole scarlatto.

Gli uomini della Lega, in preda a un'indignazione senza pari, levarono le ancore alle due del mattino di domenica 7 Ottobre e navigando lungo le coste frastagliate e le isolette della Grecia occidentale si avvicinarono al golfo di Lepanto, dove era riunita la flotta ottomana. Il mare era mosso e un vento di Sud-Est soffiava di prua. Mentre sorgeva il sole e l'avanguardia alleata entrava nel golfo, don Giovanni ordinò che su ogni nave della flotta fosse celebrata una messa.

*

Don Giovanni d'Austria passò immediatamente all'azione. (…) Le navi cristiane cominciavano a schierarsi l'una a fianco dell'altra, molto disciplinatamente e così vicine da non consentire il passaggio. Era indispensabile infatti che la flotta della Lega Santa, con l'enorme peso dei cannoni montati a pura, mantenesse una formazione compatta e si scontrasse frontalmente con i musulmani.

(…) Secondo il piano minutamente elaborato a Messina, la flotta della Lega Santa si divise in 4 grandi squadre – destra, sinistra, centro e riserve. Si formarono squadre miste di navi veneziane, spagnole, genovesi e pontificie, per evitare che, nel bel mezzo della battaglia, uno qualsiasi degli alleati, in preda al panico, si ritirasse con tutto il suo contingente. Nella squadra centrale, che era formata da 64 galee, c'era la Real di don Giovanni, fiancheggiato da Venier sull'ammiraglia veneziana, da un lato, e, dall'altro, da Marcantonio Colonna, comandante delle truppe papali. In questo stesso settore c'era anche una piccola ma assai ben agguerrita flottiglia dei Cavalieri di Malta, che spiccava per i grandi vessilli azzurri.

(…) Mentre le vele turche si facevano sempre più visibili nella chiara luce del mattino, le 6 galeazze veneziane, altissime e irte di cannoni, sì da somigliare a vere e proprie fortezze galleggianti, ma, ahimè, troppo pesanti per manovrare rapide, furono rimorchiate dalle galee fino a circa un chilometro di fronte alla linea di battaglia, donde potevano validamente contrastare con l'artiglieria nemica. I comandanti delle galeazze dell'ala sinistra erano quasi tutti imparentati con il povero Marcantonio Bragadin, e fremevano dal desiderio di vendicarsi.

(…) Ora l'armata turca – divisa in 4 squadre come la flotta della Lega Santa -, con un leggero vento in poppa, si stava avvicinando lungo il golfo. (…) Don Giovanni, rivestito da capo a piedi da una corazza, lasciò la Real e a bordo d'una veloce fregata percorse tutto lo schieramento cristiano impugnando un crocefisso. Agli Spagnoli gridò: "Figlioli, siamo qui per vincere o morire, come vorrà il Cielo. Non permettiamo che l'empio nemico ci chieda: dov'è il vostro Dio?". Ai Veneziani, umiliati e profondamente afflitti per la perdita di Cipro e per i dolorosi saccheggi subiti, parlò di vendetta.

(…) Ebbe così inizio l'ultima grande battaglia fra galee.

(…) Man mano che le flotte si avvicinavano l'una all'altra, gli equipaggi erano colpiti dal numero dei nemici. Dietro le isolate galeazze i Turchi riuscivano a distinguere una massiccia legione di 209 galee, sulle quali scintillavano le corazze della Cristianità in armi, mentre i cristiani guardavano sbigottiti la selva di 274 galee e galeotte ottomane e la miriade di imbarcazioni minori.

(…) Il fronte alleato ora si estendeva per circa 4 miglia attraverso il golfo, allarmando i comandanti ottomani più esperti. Sembra che Uluch Alì spingesse Alì Pascià a ripiegare sulle batterie costiere di Lepanto e che l'ammiraglio replicasse: "Non darò mai l'impressione che la mia flotta si stia ritirando davanti ai cristiani: noi venderemo cara la pelle".

Poco dopo, anche i comandanti cristiani più cauti, ricevuti gli ultimi ordini da don Giovanni, cercarono di dissuaderlo dal combattere. Raggelati dall'imponenza dell'armata ottomana, gli ricordarono che i Turchi, in caso di sconfitta, potevano ripiegare su Lepanto, mentre la flotta cristiana avrebbe rischiato lo sterminio. "Signori", rispose don Giovanni congedandoli, "il momento dei consigli è passato, ora è giunta l'ora di combattere".

Erano le 11 del mattino. Il vento che fin dall'alba soffiava di poppa ai Turchi, cadde all'improvviso e il mare si fece liscio come l'olio. (…) Le due flotte si avvicinarono l'una all'altra nel più grande silenzio. I musulmani pregavano raccolti, mentre al centro del fronte cristiano don Giovanni era caduto in ginocchio, implorando la benedizione di Dio sull'impresa. Senza por tempo in mezzo il suo gesto fu imitato da ogni uomo che non fosse occupato ai remi. Archibugieri spagnoli e pontifici, marinai genovesi, Cavalieri di san Giovanni, spadaccini veneziani, fanti napoletani, picchieri siciliani, tutti s'inginocchiarono come un sol uomo sui ponti accanto alle loro armi.

Gli unici suoni erano lo scricchilio dei remi e lo sciaguattare dell'acqua contro le prue. I cannonieri, tenendo in mano lo stoppino già acceso, pregavano accanto ai loro cannoni; i fucilieri s'inginocchiavano appoggiando i moschetti contro le murate. Tra quella gran moltitudine solo i frati e i monaci restarono a prua delle navi, levando al cielo i crocefissi: francescani, domenicani e gesuiti spruzzavano acqua benedetta sulle teste chine, promettendo indulgenze a tutti i combattenti e l'assoluzione a chiunque fosse caduto in battaglia.

(…) Frattanto, dopo aver pregato con inusitato fervore, i soldati cristiani si rialzarono. Venne quindi dato fiato alle trombe e le bande suonarono. Raccontò poi un ufficiale che don Giovanni "era così desideroso di cimentarsi in battaglia che sulla piattaforma da combattimento della sua galea aveva preso a danzare con entusiasmo giovanile un'aggraziata piva assieme ad altri due cavalieri".

(…) Dieci minuti dopo mezzogiorno i Turchi finalmente aprirono il fuoco.

*

Una palla tagliò a mezzo lo stendardo della nave di Cadorna: subito una delle galeazze veneziane puntò i suoi cannoni sulla nave di Alì Pascià. Il primo colpo prese in pieno il triplice fanale cerimoniale a poppa della Sultana: fu un cattivo presagio. "Dio ci conceda", mormorò Alì Pascià dal casserotto, "di poter far fronte degnamente a tutto ciò".

(…) Uno storico veneziano scrisse orgoglioso: "Il nemico era avvolto nel fumo e nel frastuono, colpito con pallottole, catene e mitraglie di furia incredibile, che distrussero buona parte dell'armata, decapitando questo, tagliando in due quell'altro, mandando in frantumi gli alberi delle navi, spazzando il castello di prua all'una o sbriciolando la poppa all'altra, facendo saltar via interi banchi di remi, infine affondandone alcune e facendo annegare quanti erano a bordo".

La flotta turca era in preda al più grande disordine: adesso le galee ottomane si trovavano una dietro l'altra, e si impedivano a vicenda di far fuoco, mentre i cannoni degli alleati tuonavano senza tregua. Quando i due fronti si scontrarono, i cannoni di prua delle galee cristiane crivellarono gli avversari con colpi ancor più accaniti; le navi turche avanzavano in gruppi confusi, remando alla cieca nel fumo, scagliando una pioggia di frecce e proiettili e cercando uno spiraglio nello schieramento cristiano per attaccarlo alle spalle.

(…) Poi il corso della battaglia cambiò. Mentre il micidiale fuoco degli archibugi decimava i soldati ottomani man mano che si schieravano sui ponti, le prue barricate delle navi alleate proteggevano validamente i cristiani dalle frecce nemiche. Ben presto i Veneziani si gettarono sulle poche galee che erano riuscite ad aggirarli, facendo prigioniero il feroce corsaro Kara Alì. La battaglia proseguì a bordo dell'ammiraglia di Maometto Suluk. Il fuoco di fila dei moschetti si abbatté sulle schiere dei difensori, poi un impetuoso assalto dei cristiani armati di picche e spade massacrò i Turchi superstiti o li scaraventò in mare; squarciata dalle cannonate, la nave cominciò a inabissarsi. Maometto Suluk fu ripescato dai Veneziani, tanto gravemente ferito che la sua immediata decapitazione, ordinata dai Veneziani, parve un atto misericordioso.

La squadra di destra della flotta ottomana, semidistrutta, aveva ormai ripiegato verso terra. (…) La galeazza di Ambrigio Bragadin, accostando lentamente, volse i suoi cannoni sui Turchi intrappolati e prese a far fuoco. La galee ottomane furono spinte sulle secche o sugli arenili, dove finirono cozzando l'una contro l'altra in uno spaventoso intrico di remi. I Veneziani davano addosso senza pietà agli avversari ormai in preda al panico: molti annegarono, altri, in fuga dai ponti in fiamme o naufragati o impantanati nelle secche, venivano colpiti dai tiratori scelti. I Veneziani li inseguirono fin sulla terraferma, uccidendoli fra gli scogli. Un fante che aveva perduto le armi infilzò un Turco al terreno trapassandogli la gola con un bastone appuntito.

L'ecatombe fu pressoché totale, e l'ala destra della flotta ottomana venne praticamente distrutta.

Quello scontro fu anche il primo a concludersi, dimostrando, come ebbe a dire in seguito Marcantonio Colonna, che "i Veneziani erano ancora fatti della stoffa d'un tempo".

Frattanto, in una coltre di fumo e fiamme, i nuclei centrali delle due flotte si andavano avvicinando. Le navi ammiraglie di don Giovanni e di Alì Pascià avevano seguito ciascuna la propria rotta. Dalla cima dell'albero di don Giovanni sventolava orgoglioso lo stendardo azzurro della Lega Santa con l'immagine del Redentore crocefisso e le parole "In hoc signo vinces", mentre da quella di Alì Pascià si innalzava un vessillo bianco proveniente dalla Mecca, sul quale erano ricamate in oro alcune sure del Corano e due scimitarre incrociate. Parve a tutti che la sorte della battaglia sarebbe dipesa da quelle due grandi navi pronte a un duello mortale.

(…) Le navi cristiane rovesciavano cannonate ad alzo zero e il fuoco di archibugieri e moschettieri era così serrato che spesso sgombrava i ponti delle navi nemiche prima ancora che qualcuno salisse a bordo. (…) Le squadre di abbordaggio cristiane cominciavano però a risentire dei feroci combattimenti all'arma bianca, accompagnati da un tumulto infernale cui facevano seguito i soffocati singhiozzi dei morenti. Erano assalti spietati, e spesso imprevedibili; tra i mille accorgimenti adottati, vi era anche quello di cospargere le passerelle di olio, miele e burro, che facevano fatalmente scivolare gli aggressori.

Ben presto le galee che affondavano riempirono il mare ribollente dei loro morti e feriti: gli schiavi, incatenati ai remi, affogavano a migliaia.

Molti componenti della flotta cristiana compirono atti di valore. Uno spagnolo rimasto sconosciuto, colpito a un occhio da una freccia, se la strappò, si mise un fazzoletto attorno al capo a chiudergli l'orbita vuota, e fu il primo a salire a bordo della nave nemica attaccata. Dall'ammiraglia di Genova, il cui capitano era stato ucciso, il ventunenne principe di Parma si fece strada a fendenti su una galea turca, conquistandola quasi da solo. Sulla galea siciliana San Giovanni, un sergente di nome Muñoz, che a causa di una febbre altissima stava sotto coperta, salì sul ponte urlando che preferiva morire combattendo, e con un violento attacco respinse gli aggressori per metà nave e ne uccise quattro. Poi, ferito da innumerevoli frecce, con una gamba maciullata, crollò esanime fra i rematori non prima di aver incitato i compagni a resistere.

Proprio a bordo della Real si scoprì che uno degli archibugieri era una donna, chiamata Maria la Bailadora (la Danzatrice). Unitasi a una squadra che abbordava la Sultana, uccise un turco in un feroce duello corpo a corpo, e, per ricompensa, in seguito le fu permesso di restare nel reggimento. Anche frati e monaci combattevano con grandissimo ardore. Un frate spagnolo giunse al punto di legare il proprio crocefisso alla punta di un'alabarda, e a quel modo guidò una squadra all'arrembaggio. Un frate cappuccino romano, vedendo che la sua galea era stata sopraffatta, afferrò un raffio e lo usò come arma finché non ebbe ucciso 7 turchi e scacciato gli altri dal ponte.

Un episodio ancor più strano si verificò quando un lontano cugino del papa, di nome Ghisliero, guidò una squadra all'arrembaggio di una galea turca. Per anni egli era stato prigioniero ad Algeri e ora si trovò di fronte un corsaro algerino che gli era stato amico nella sfortuna. "Se vuoi salvarti", gli urlò, "buttati a mare". Ma l'uomo si rifiutò di abbandonare i compagni e impugnò la scimitarra. Ghisliero, portando lentamente l'archibugio alla spalla, gli sparò al petto: poi, visto che non era ancora morto, pose fine alle sue sofferenze con la spada.

*

(…) Uno degli scontri più cruenti di tutta la battaglia fu quello tenutosi nel settore Sud. I cristiani di questo settore, già esausti quando si volsero a Sud per far fronte alla nuova minaccia rappresentata dall'offensiva repentina del pirata algerino Uluch Alì, si trovarono assaliti da ogni parte da forze ottomane fresche. Le prime a subire l'assalto furono tre navi maltesi dei Cavalieri di San Giovanni, vecchi nemici dei corsari; 7 galee algerine si posero al loro fianco, tempestandole di frecce e pallottole da distanza ravvicinata; poi i corsari andarono decisi all'abbordaggio e trucidarono quel che restava degli equipaggi. Per parte loro i Cavalieri diedero prova di grandissimo coraggio: Geronimo Ramirez di Saragoza menava fendenti con tanta ferocia che solo dopo averlo visto disteso, trafitto da innumerevoli frecce, il nemico osò avvicinarglisi. Sulla nave maltese il priore Pietro Giustiniani, comandante della flottiglia, fu l'ultimo a cadere, trapassato da 6 frecce, ma fu catturato vivo. Tra i suoi uomini sopravvissero solo un cavaliere spagnolo e uno siciliano, feriti e dati per morti nel cumulo degli uccisi.

(…) Le perdite furono enormi su ambedue i fronti. Molte galee andavano alla deriva, prive di comandante, l'equipaggio massacrato, i corpi dei rematori riversi sui banchi. Una galea pontificia, la Fiorenza, aveva perduto tutti gli ufficiali, i soldati e gli schiavi, e il comandante Tommaso de' Medici si ritrovò solo con 16 marinai feriti. La San Giovanni alla deriva sembrava un vascello fantasma: il suo equipaggio era stato trucidato fino all'ultimo uomo, gli schiavi uccisi ai remi, il capitano stroncato da due colpi ddi moschetto.

Nel cuore dello schieramento cristiano, intanto, lo scontro fra la Sultana e la Real era all'apice. Verso le due pomeridiane don Giovanni, con la spada sguainata, si lanciò all'assalto della galea turca seguito dai suoi uomini, mentre alla sua destra l'ammiraglia di Marcantonio Colonna andava a cozzare con violenza contro la poppa della Sultana. Presi tra il fuoco incrociato degli archibugi di Colonna e l'assalto degli acciai spagnoli, gli uomini di Alì Pascià dovettero ripiegare. Il capo ottomano, come narra un cronista spagnolo, si disperò al punto che, "resosi conto di non poter ormai più contare sull'aiuto umano, gettò in mare di propria mano un cofanetto colmo di pietre preziose d'ingentissimo valore".

Di lì a poco Alì Pascià trovò la morte in mezzo ai suoi giannizzeri agonizzanti, pare colpito in piena fronte da un proiettile di archibugio. Della sua morte esistono molte versioni; un soldato presente allao scontro riferì che Alì Pascià estrasse un pugnale dalla fusciacca, si tagliò la gola e si gettò in mare. Ma la descrizione più dettagliata ci viene da un ufficiale, Ferrante Caracciolo, che riferì: "Dopo aver conquistato l'ammiraglia turca, i soldati trovarono il Pascià ferito da un colpo di archibugio. Egli disse loro in italiano di scendere nella stiva perché c'era del denaro. Quando i soldati si resero conto che quell'uomo era Alì Pascià, un rozzo spagnolo si fece avanti per ammazzarlo. Per placarlo il turco gli offrì una preziosa catena, ma le sue parole furono inutili poiché senza la minima traccia di compassione quello lo decapitò e, tuffandosi in mare, portò la testa a nuoto sulla galea di don Giovanni, sperando in una congrua ricompensa. Don Giovanni però rispose con stizza: 'Che cosa vuoi che me ne faccia di questa testa? Buttala in acqua'. Ciononostante per un'ora circa essa rimase a poppa della galea, infilzata su una picca".

Pochi minuti dopo la morte di Alì Pascià il lacero vessillo bianco con i versetti del Corano era stato ammainato, e al suo posto sventolava ora lo stendardo con il crocefisso. Don Giovanni ordinò di dar fiato alle trombe e il grido di "Vittoria! Vittoria!" si propagò per tutta la flotta. I Turchi, sopraffatti ovunque, si arresero a migliaia. I due figli di Alì Pascià, che egli aveva condotto per la prima volta in mare, furono fatti prigionieri e così pure lo scaltro Karakoch. Le poche galee ottomane che al centro opponevano ancora resistenza furono presto annientate.

(…) Solo l'ala destra cristiana lottava ancora, poiché gli algerini di Uluch Alì si battevano per salvare la pelle. (…) Una grande galea veneziana fu abbordata e quasi sommersa dalla massa degli aggressori; il comandante fu ucciso, ma il suo segretario, per non cadere in mano ai nemici, diede fuoco alla santabarbara, facendo saltare in aria la nave e tutti coloro che erano a bordo. In un altro punto dello schieramento un capitano di artiglieria spagnolo, Federico Venusta, ferito alla mano da una granata, corse con un coltello da uno dei rematori, chiedendogli di amputargliela, ma costui svenne. Così Venusta se la staccò da solo, poi andò nelle stiva della galea e, infilato il moncherino nel corpo ancora caldo di un pollo appena sgozzato, lo assicurò con una fasciatura e tornò a combattere.

Di fronte a tanto eroismo anche i sanguinari seguaci di Uluch Alì non potevano fare gran che. Da una parte le galee cristiane del centro si scagliavano su di loro senza pietà, dall'altra Doria, coperto del sangue d'un soldato morto al suo fianco, infieriva alle spalle dello squadrone ottomano. Le galee di Cadorna, sebbene numericamente inferiori, avevano catturato o messo in fuga le galee avversarie, ma durante la lotta l'ammiraglia siciliana era stata quasi distrutta e Cadorna ferito mortalmente alla gola.

Con una mossa abile, per quanto a malincuore, Uluch Alì ritirò dal combattimento quel che restava della sua flotta: la battaglia, ne era certo, era ormai perduta. (…) Di tutti i capi ottomani, egli solo sopravvisse con onore alla battaglia. Si stabilì nella città di Costantinopoli dove morì alla bella età di 90 anni, a quanto si narra, fra le braccia di una concubina.

Al colmo del giubilo la flotta cristiana percorse il campo di battaglia nel crepuscolo che volgeva all'oscurità, assicurando le galee catturate, raccogliendo i feriti e dando fuoco ai relitti. Il mare non era che un'immane desolazione di sangue, alberi e pennoni spezzati, cadaveri di annegati, turbanti. "Soldati, marinai, galeotti si diedero allegramente al saccheggio fino al calar delle tenebre", annotò in seguito un cristiano.

(…) Quella notte, poiché le nubi si facevano minacciose, la flotta guadagnò un ancoraggio sicuro appena fuori del golfo, abbandonando i resti della battaglia alle correnti marine e lasciando qualche scafo in fiamme sulle acque cupe, a memento della vittoria.

*

Le perdite furono tremende da ambedue le parti. Gli uccisi cristiani ammontavano a circa 7600 ed eguale fu il numero dei feriti, tra i quali s'annoverava il fior fiore della Cavalleria europea. I morti erano per lo più Veneziani – oltre 4000, fra cui 18 comandanti di galee e 12 capifamiglia delle casate più importanti della città. Le galee perdute dalla flotta cristiana si limitarono a 12 e una sola fu catturata.

Le perdite dei musulmani furono molto più pesanti: 30.000 i morti, fra cui molti pascià e governatori; 3000 prigionieri e 15.000 schiavi cristiani affrancati dai banchi delle galee ottomane. Inoltre, circa 240 fra galee e galeotte furono affondate, incendiate o catturate dai cristiani.

(…) Tuttavia la battaglia di Lepanto, dal punto di vista strategico, non ebbe risultati evidenti, e Cipro non fu riconquistata. (…) Ciononostante, nell'intangibile regno delle speranze e dei timori umani, la battaglia segnò un punto cruciale. Tutta la Cristianità europea provò un senso di sollievo, una nuova fiducia in se stessa. Per la prima volta a memoria d'uomo i Turchi erano stati decisamente sconfitti e avevano dimostrato di essere, come ebbe a dire Colonna, nient'altro che comuni mortali.

Venezia, che attendeva con ansia di conoscere l'esito della battaglia, esplose in un delirio di gioia quando, il 17 Ottobre, fu avvistata una galea che trascinava nell'acqua le bandiere turche conquistate, mentre l'equipaggio sfoggiava costumi ottomani strappati ai vinti. Le campane suonarono a distesa, furono accesi dei grandi falò e venne dato il via a una serie di festeggiamenti entusiastici: 99 poeti celebrarono la vittoria in maestosi (e ampollosi) versi; si coniarono monete commemorative e i pittori si affrettarono a immortalare l'evento su pareti e soffitti di Palazzo Ducale. Notte dopo notte la città si accendeva di mille luci e risuonava di musiche armoniose.

La battaglia venne soprattutto considerata come la vittoria di Cristo su Mammona. Papa Pio V, che considerava l'intero mondo cristiano in debito con don Giovanni d'Austria, accolse la notizia con un significativo versetto della Bibbia: "E venne un uomo inviato dal Signore, e il suo nome era Giovanni".

Colin Thubron, Lepanto, una lotta all'ultimo sangue,
in I Veneziani, Collana I Grandi Navigatori,
CDE – Gruppo Mondadori, Milano 1987