LA "VIA DELLA GUERRA" NELLA BHAGAVAD GITA, CON LE PAROLE DI SRI AUROBINDO
La mia fede m'impedisce di uccidere, dice il lama tibetano.
La mia invece me lo impone, gli risponde Temujin. (dal film Mongols, 2007)
La grande importanza che la Gita riveste nell'esperienza di Sri Aurobindo prese forma sin dall'inizio della sua avventura: forti di ciò, amiamo pensare che forse non fu un caso che in quel 24 novembre 1926 in Sri Aurobindo scese la coscienza e la potenza di Sri Krishna, il protagonista assoluto sul campo di battaglia di Kurukshetra, punto di inizio della trattazione della Bhagavad Gita.
Non a caso quindi il Maestro chiamò quel giorno Siddhi Day, il Giorno del Potere.
Finalmente trovo un senso al nascere dell'anima * a questo universo dolce e terribile,
io che ho sentito il cuore affamato della terra * aspirare ai piedi di Krishna oltre il cielo.
Ho visto la bellezza di occhi immortali * e udito la passione del flauto dell'Amante,
e conosciuto la meraviglia di un'estasi immortale * e il dolore nel mio cuore per sempre muto.
Sempre più vicina si fa la musica,* la vita ha un brivido di strana felicità;
tutta la natura è un'ampia pausa d'amore * nella speranza che il suo signore tocchi, afferri, esista.
Per questo solo istante sono vissute le età passate; * finalmente ora il mondo compiuto pulsa in me.
(Sri Aurobindo, Krishna)
Sri Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gita
Cap. V: Kurukshetra
(…) Ma qual è dunque la natura della difficoltà per l'uomo che deve prendere il mondo così com'è, e viverci, e che tuttavia vorrebbe condurre, interiormente, una vita spirituale? Qual è quell'aspetto dell'esistenza che spaventa la sua mente lucida, che provoca ciò che il primo canto della Gita, con un titolo assai espressivo, chiama “Lo yoga dello sgomento di Arjuna”, l'afflizione, lo scoraggiamento dell'uomo costretto ad affrontare ad occhi aperti lo spettacolo del mondo tale quale realmente è, una volta che il velo dell'illusione etica [l'illusione della rettitudine personale) è lacerato, e prima di aver raggiunto una più alta riconciliazione con sé stesso? Proprio quell'aspetto è raffigurato esteriormente con la strage e il massacro di Kurukshetra, e spiritualmente con la visione del Signore del Tutto, che sorge sotto la forma del Tempo per divorare e distruggere le proprie creature. È questa la visione del Signore di ogni esistenza come Creatore universale, ma anche come Distruttore universale - il Signore di cui l'antica Scrittura poteva dire, con un'immagine crudele: "I saggi e gli eroi sono il suo cibo, e la morte il condimento del suo banchetto." Si tratta sempre della stessa verità, intravista dapprima in modo indiretto e oscuro nei fatti della vita, percepita in seguito direttamente e chiaramente dall'anima in una visione di ciò che si manifesta nella vita. L'aspetto esteriore è quello dell'esistenza del mondo e dell'uomo, la quale procede attraverso lotte e massacri; l'aspetto interiore è quello dell'Essere universale che realizza sé stesso attraverso un'immensa creazione e un'immane distruzione. La vita come campo di battaglia e campo di morte: ecco che cos'è Kurukshetra. Dio il Terribile: ecco la visione che appare ad Arjuna sul campo della carneficina.
"La guerra", dice Eraclito, "è il padre di tutte le cose, la guerra è il sovrano onnipotente." Questa massima racchiude una profonda verità, come del resto la maggior parte dei detti memorabili del filosofo greco. Pare infatti che da una collisione di forze, materiali o meno, siano nate tutte le cose di questo mondo, se non il mondo stesso, che sembra poi svilupparsi attraverso una lotta di forze, di tendenze, di principi, di esseri, per creare continuamente cose nuove, sempre distruggendo le vecchie. Così il mondo ha l'aspetto di avanzare verso chissà quale scopo: verso una finale disintegrazione, dicono alcuni; in una serie di cicli privi di ogni finalità, dicono altri; in una progressione di cicli che conducono, attraverso tutta l'agitazione e l'apparente confusione e con un'approssimazione sempre più alta, ad una divina apocalisse - ed è questa la conclusione più ottimistica. In ogni modo, una cosa è certa: non soltanto qui non c'è costruzione senza distruzione e non esistono armonie se non attraverso un equilibrio di forze opposte, ottenuto con molti antagonismi attuali o virtuali, ma inoltre ogni vita, per sussistere, esige costantemente nutrimento, quindi di divorare altre vite. La nostra stessa vita corporea è una continua morte e una continua rinascita, il corpo una città assediata, attaccata da forze offensive, protetta da forze difensive, la cui funzione è di divorarsi a vicenda; ed è l'esempio tipico di ogni aspetto della nostra esistenza. Fin dal principio della vita sembra che sia stato dettato questo comandamento: "Non conquisterai nulla senza combattere contro i tuoi simili e contro l'ambiente che ti circonda; vivrai esclusivamente mediante la battaglia e la lotta, assorbendo altre vite in te. La prima legge di questo mondo che io ho fatto è: creazione e conservazione tramite la distruzione."
Il pensiero antico accettava tale punto di partenza nella misura in cui poteva percepirlo osservando il mondo. Le antiche Upanishad lo videro molto chiaramente e lo espressero appieno in tutta la sua crudezza, senza aggiungere né commenti tranquillizzanti né scappatoie ottimistiche. La fame, che è la morte, dicevano, è il creatore e il signore di questo mondo; esse rappresentavano l'esistenza vitale con l'immagine del cavallo del sacrificio. Alla materia diedero un nome che comunemente significava cibo. La chiamiamo così, dissero, poiché essa è divorata e divora le creature. "Colui che mangia è mangiato", è la formula del mondo materiale, tale quale la riscoprirono Darwin e i suoi seguaci, quando conclusero che la lotta per la vita è la legge che governa l'evoluzione dell'esistenza. La scienza moderna non ha fatto altro che ripetere la vecchia verità che era stata espressa in formule più vigorose, più larghe e più esatte dalla massima di Eraclito e dalle immagini delle Upanishad.
(…) La guerra e la distruzione non sono soltanto un principio universale della nostra vita di qui, nel suo aspetto puramente fisico; esse dirigono anche la nostra esistenza mentale e morale. Appare evidente che nella vita reale dell'uomo, sia intellettuale, sia sociale, politica o morale, non possiamo avanzare di un solo passo senza incontrare lotta e battaglia tra ciò che esiste e vive e ciò che cerca di vivere e d'esistere e tra tutto ciò che si cela dietro a questi due partiti. È impossibile, almeno allo stato attuale degli uomini e delle cose, crescere, avanzare, compiere il proprio destino, e contemporaneamente osservare in modo reale e concreto il comandamento di non nuocere al prossimo (ahimsa, non-violenza), che tuttavia ci viene dato come la migliore e più alta regola di condotta. Dite che non dovremmo servirci altro che della forza spirituale, e mai distruggere con la guerra o con l'impiego, foss'anche difensivo, della violenza fisica? E sia, benché la forza asurica nell'uomo e nelle nazioni possa, nell'attesa che la forza spirituale divenga efficace, calpestare e distruggere tutto, massacrare, incendiare e profanare, come la vediamo fare oggi, con la differenza però che, in tal caso, lo farebbe liberamente e che il vostro non intervento avrebbe forse causato una strage tanto grande quanto l'avrebbero causata altri ricorrendo alla violenza; forse sareste riusciti a diffondere un ideale, che un giorno avrebbe potuto condurre - che anzi dovrà condurre - ad un migliore stato di cose. Ma persino la forza spirituale distrugge, quando è efficace. Soltanto coloro che l'hanno usata con gli occhi bene aperti sanno quanto essa sia più terribile e più distruttiva della spada o del cannone, e solamente quelli la cui vista non si ferma all'atto e ai suoi risultati immediati possono vedere quanto sia spaventoso il susseguirsi dei suoi effetti, quante cose essa distrugga, e con quelle cose, tutta la vita che ne dipendeva e che di quelle si nutriva. Il male non può perire senza causare la distruzione di gran parte di ciò che fonda la propria esistenza sul male; si tratta pur sempre di una distruzione, anche se a noi personalmente è risparmiata la sensazione dolorosa di un atto di violenza.
(…) Tutto ciò non significa che la guerra e la distruzione siano l'alfa e l'omega dell'esistenza, che l'armonia non sia superiore alla guerra, che l'amore non manifesti il Divino più della morte, o che noi non dobbiamo cercare di sostituire alla forza fisica la forza spirituale, alla guerra la pace, alla rivalità l'unione, all'odio l'amore, all'egoismo l'universalità, alla morte la vita immortale. Dio non è soltanto il Distruttore, è anche l'Amico delle creature; non è soltanto la Trinità cosmica, ma anche il Trascendente; la terribile Kàli è pure la Madre amorevole e benefica, il Signore di Kurukshetra è il divino compagno e l'auriga, Colui che attrae gli esseri, Krishna incarnato. Dovunque Egli ci conduca, attraverso lotte, conflitti e confusione, qualunque sia lo scopo, lo stato divino verso cui Egli ci attira, si tratta certamente di una trascendenza che oltrepassa tutte quelle apparenze su cui ci siamo così lungamente soffermati. Ma dove e come, a quale trascendenza e sotto quali condizioni - questo dobbiamo scoprirlo; e per scoprirlo bisogna anzitutto vedere il mondo qual è, osservarne e valutarne correttamente l'azione, quale ci appariva all'inizio ed ora, perché in seguito il suo percorso e il suo scopo si rivelino più chiaramente. Dobbiamo riconoscere Kurukshetra per quello che è: dobbiamo sottometterci alla legge che condiziona la vita alla morte, prima di poter trovare la nostra via verso la vita immortale; dobbiamo aprire gli occhi, con uno sguardo meno spaventato di quello di Arjuna, alla visione del Signore del tempo e della morte e cessare di negare, di odiare il Distruttore universale o di indietreggiare davanti a Lui.
Sri Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavad Gita,
Mediterranee, Roma 1981