Voci etnomusicologiche:
polivocalità, tarantismo, isoritmia
Proposta di voci etnomusicologiche per la V Appendice
dell'Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani, Roma 1989 (prof. Vincenzo Cappelletti)
1. Polivocalità
(dal gr. polùs, molto, numeroso, e lat. vox, is, voce) (Audio)
Come indicato dall'etimologia, il termine sta a significare l'esecuzione di più parti contemporaneamente, e si differenzia dal termine polifonia sia nel suo specifico riferirsi al repertorio vocale, sia nella particolare accezione da esso assunta in campo etnomusicologico; con questo termine viene infatti generalmente intesa in etnomusicologia la polifonia vocale di tradizione orale, che come tale manifesta modi di produzione, di trasmissione e di esecuzione completamente diversi da quelli della polifonia scritta.
Nella terminologia etnomusicologica il termine ha inoltre assunto una pluralità di significati, essendo stato adottato da alcuni studiosi per distinguere, all'interno del repertorio vocale polifonico di tradizione orale, i canti costituiti da melodie accompagnate (cioè quei canti in cui un solista esegue una melodia mentre le altre parti cantano in accompagnamento, attraverso parallelismi, bordoni o combinazioni tra le due tecniche) dai canti costituiti da melodie a intreccio (cioè quei canti in cui vi è una combinazione tra due o più melodie e sono meno evidenti le funzioni di solista e di accompagnamento, attraverso discanti, contrappunti o combinazioni tra tecniche diverse) (cfr. Facci, Giuriati in Bibliografia): si parlerà dunque di polivocalità nel primo caso e di polifonia nel secondo, allo scopo di evidenziare nella prima l'assenza di una vera e propria indipendenza polifonica delle parti, ma solo la presenza di una "pluralità di voci" sovrapposte.
Nel repertorio musicale italiano di tradizione orale i canti polivocali presentano inoltre una serie di tratti costitutivi comuni, derivanti proprio dalla mentalità orale a essi sottintesa, che assumono però caratteristiche formali e stilistiche diverse a seconda delle aree geografiche di appartenenza: possiamo infatti parlare di tre distinti stili polivocali presenti nell'Italia settentrionale, centrale e meridionale-insulare, caratterizzati da una maggiore o minore presenza di parallelismi, vocalizzazioni, melismi, bordoni, ecc. (cfr. Agamennone-Facci in Bibliografia).
Come elementi comuni alla polivocalità italiana nel suo insieme vengono viceversa considerati la presenza costante nei canti di un incipit monodico (dovuto all'assenza di un'altezza di intonazione assoluta, e affidato ad una prima voce guida che ha il compito di introdurre l'entrata vocale delle altre voci), nonché la generale unicità del testo verbale nelle sue varie voci e il valore essenziale, ai fini di una corretta esecuzione, rivestito dal timbro vocale (cfr. Gallo in Bibliografia).
Roma, 1989
Bibliografia
M.SCHNEIDER, Geschichte der Mehrstimmgkeit, Tutzing 1969
D.CARPITELLA, Musica e tradizione orale, Palermo 1973
R.LEYDI, I canti popolari italiani, Milano 1973
C.SACHS, Le sorgenti della musica, (ed.it.), Torino 1979
M.AGAMENNONE, S.FACCI, La trascrizione delle durate nella polivocalità popolare a due parti in Italia, in Culture Musicali I, 1, Roma 1982
S.GIURIATI, Italia – Musica popolare, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, Torino 1983
S.FACCI, Quindici esempi di polifonia tradizionale, in Forme e comportamenti della musica folklorica italiana, Milano 1985
P.GALLO, Il Miserere polivocale di Sessa Aurunca, in Musica e liturgia nella cultura mediterranea, Firenze 1985
Bitti, Tenores Monte Bannitu - Ballu lestru
2. Tarantismo (Audio)
Il termine è usato nel campo degli studi etnologici e storico-religiosi per designare un fenomeno specifico della religiosità popolare pugliese, presente in particolare nella penisola del Salento, caratterizzato dal simbolismo del morso avvelenato della taranta (termone dialettale indicante l'aracnide in senso generico), e della terapia musicale, coreutica e cromatica usata per liberare dagli effetti di tale morso; a tale scopo, infatti, il "tarantato" si sottopone all'esorcismo della taranta (il cui mitico morso ha gli opposti effetti di immergere in un languore senza fine o in un'incontrollabile agitazione) mediante una cura domiciliare eseguita da musicisti specializzati, nel corso della quale egli dà vita a una danza incalzante e prolungata, svolta secondo modelli coreutico-musicali ben definiti e mediante l'uso di un forte simbolismo cromatico.
Nel complesso di tale simbolismo sono d'altra parte presenti una serie di contraddizioni, in quanto il morso della taranta può essere interpretato sia realisticamente come il morso di un aracnide velenoso (identificato generalmente nel Latrodectus tredicim guttatus), sia come una ben definita scelta culturale operante all'interno di un sistema simbolico mitico-rituale; sotto il profilo medico, infatti, non si può escludere che l'effettivo verificarsi di forme di aracnidismo possa essere considerato all'origine del fenomeno, ma anche nei casi accertati di reale puntura del paziente da parte del ragno la sindrome tossica si inserisce sempre all'interno del quadro mitico-rituale del tarantismo, con i suoi elementi culturali precisi, codificati e reiterati.
L'esorcismo coreutico-musicale del tarantismo si svolge sotto forma domiciliare all'interno di un perimetro cerimoniale, delimitato da un lenzuolo bianco steso al suolo, che rappresenta lo scenario del rito; al suo interno è posta la "tarantata" (la partecipazione femminile è infatti preponderante rispetto a quella maschile), la quale, sotto l'influsso musicale di una serie di £tarantelle" e "pizziche tarantate" eseguite dai suonatori appositamente ingaggiati per l'occasione, si abbandona a una danza rituale dall'effetto fortemente drammatico. Svolta secondo un ciclo coreutico ben definito teso a narrare, e nello stesso tempo a rivivere, il passaggio dalla crisi alla sua risoluzione.
La danza è infatti caratterizzata da una prima fase al suolo di identificazione mimica dell'animale mitico, e da una seconda fase in piedi di risoluzione agonistica della possessione, svolta attraverso una vera e propria "lotta col ragno", effettuata con l'ausilio cromatico di panni colorati rappresentanti simbolicamente i "colori" della taranta avvelenatrice; tali cicli coreutici si ripetono, talvolta per giornate intere, fino all'avvenuta guarigione, attribnuita alla "grazia" del Santo, identificato, secondo una forma di sincretismo cattolico instauratosi dalla fine del '700 in poi, in S.Paolo Apostolo "protettore dei tarantati".
Nata bel Medioevo e protrattasi sino al '700 e oltre, fino alle ultime sopravvivenze ancora osservabili nel Salento, questa formazione religiosa "minore", a carattere prevalentemente contadino, non è l'unica del suo genere in Italia e nell'area folklorica mediterranea; parallelismi col tarantismo pugliese possono infatti essere rintracciati a livello folklorico-religioso nell'argismo sardo e nel tarantismo iberico, mentre a livello etnologico sono di rilevante importanza i paralleli africani e afro-americani, quali il bori tunisino e sudanese, lo zar egiziano ed etiopico, il tigretier abissino oppure il vudu haitiano e la macumba e il candomblé brasiliani.
Considerando gli antecedenti antichi rintracciabili nei culti orgiastici e iniziatici del mondo greco, quali la manìa e il menadismo, o nelle forme di catarsi musicale proprie della scuola pitagorica (stanziatasi proprio nei territori della Magna Grecia), e tenendo presente il fatto che durante tutto il medioevo la vita culturale delle popolazioni costiere del meridione fu continuamente esposta a influenze arabe e nord-africane, possiamo dunque inserire il tarantismo pugliese all'interno di un'area di diffusione mediterranea che si richiami alle civiltà protomediterranee e ai culti di possessione africani; accanto a quest'area dobbiamo inoltre aggiungere quella del mondo afro-americano, dove si sono sviluppati i citati culti strutturalmente affini, caratterizzati da fenomeni di possessione e stati di trance.
La profondità storica del tarantismo ci è testimoniata dalla ricca letteratura sviluppatasi intorno all'argomento fin dal Medioevo, secondo due distinte prospettive di indagine, consistenti l'una in un approccio di tipo medico e l'altra di tipo culturale al fenomeno; appartengono al primo gruppo i documenti e le testimonianze del periodo medievale, quali il Sertum Papale de Venenis del De Marra (1306 ca.) e l'episodio relativo al morso delle tarantole riportato nell'Historia Hierosolymitanae Expeditionis di Albertus Aquensis, nonché gli studi compiuti nei sec. XVII e XVIII da parte di medici e umanisti quali Epifanio Ferdinando, Giorgio Baglivi, Girolamo Marciano, e gli esponenti della scuola medica napoletana, primo fra tutti Francesco Serao.
Sull'opposto versante della prospettiva d'indagine di tipo "culturale" dobbiamo citare anzitutto il gesuita Athanasius Kircher, che condusse la sua ricerca nell'ambito della iatromusica barocca, considerando il tarantismo come una forma di prodigiosa guarigione ottenuta per vie "naturali" attraverso l'opera magnetica della musica, nel quadro di quella patologia umorale che era a fondamento della iatromusica seicentesca; ma dovremo aspettare fino al sec.XX perché nell'indagine sul tarantismo si affermi una vera e propria prospettiva storicista, grazie al fondamentale lavoro di Ernesto De Martino, condotto direttamente "sul campo" attraverso la collaborazione di un'equipe polispecialistica e raccolto nel volume La terra del rimorso (1959), che è da ritenersi come la più approfondita e completa monografia sul tarantismo finora realizzata.
Concludono il quadro dei principali studi moderni sul tarantismo i lavori del Sigerist (1945) e di Marius Schneider (1948), propugnatore quest'ultimo di un'interpretazione in chiave mistica e mitopoietica del fenomeno, inserito all'interno del più ampio contesto dei "riti medicinali" e stagionali a carattere contadino.
Roma, 1989
Bibliografia
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J.MULLER, De tarantula, et musica in ejus curatione, 1679
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F.SERAO, Della tarantola o sia falangio di Puglia, Napoli 1742
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A.VERGARI, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli 1839
G.M.CARUSI, Delle tarantole e del tarantismo, Napoli 1848
C.SACHS, Eine Weltgeschichte des Tanzes, Berlino 1933
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A.PONTVIK, Heilen durch Musik, Zurigo 1955
D.CARPITELLA, L'esorcismo coreutico-musicale del tarantismo, in DE MARTINO, La terra del rimorso, Milano 1961
E.DE MARTINO, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano 1961
C.GALLINI, I rituali dell'argia, Padova 1967
G.LAPLASSADE, Essai sur la transe, Parigi 1976
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G.ROUGET, Musica e trance. I rapposrti fra la musica e i fenomeni di possessione, Torino 1986
Pizzica Tarantata Salentina, violinista Mauro Durante
3. Isoritmia
(dal gr. isos, uguale, e rythmos, ritmo) (Audio)
Tecnica compositiva dell'Ars Nova francese, adottata in particolare nei mottetti polifonici e politestuali del XIV secolo da autori come Philippe de Vitry (1291-1361) e Guillaume de Machaut (1300-1377), consistente nella ripetizione, lungo l'arco di un intero componimento, di una serie di sezioni ritmicamente identiche chiamate taleae (bacchette), che assumono la denominazione di colores (timbri, coloriture) quando la reiterazione non interessa solamente il materiale ritmico, ma anche quello melodico.
La composizione viene così sviluppandosi intorno a uno schema isoritmico, costituito da una serie di variazioni compiute su una struttura ritmica invariata dal principio alla fine, che conferisce al movimento delle parti un'unità strutturale di fondo, la cui estrema rigidità costruttiva viene mascherata dall'abilità del compositore nell'introdurre nuove coloriture armoniche e melodiche o nel modificare l'intensità del suono, così a dare un'impressione di movimento e di dinamica nella condotta delle varie voci.
Lo schema isoritmico del XIV secolo, a volte abbastanza esteso e libero da restrizioni modali, pur essendo riservato quasi esclusivamente alla produzione mottettistica, resta peraltro un esempio degli sforzi compiuti dai musicisti dell'Ars Nova per emancipare la melodia dai ritmi modali antichi e per elaborare soluzioni nuove, che superavano ormai definitivamente le fasi dei primitivi ordines del tenor (cioè gli antichi modi ritmici fissi, applicati fino a tutto il Duecento alla voce bassa della composizione polifonica) e altri schemi simili.
Al fine di variare l'eventuale fissità di un'isoritmia troppo rigida, i teorici e i compositori medievali adottarono inoltre la tecnica della diminuzione e dell'aumentazione dei valori di durata delle parti (applicata eseguendo quest'ultime rispettivamente nel valore immediatamente inferiore e immediatamente superiore alla durata della nota così com'era scritta); ciò comportava una trasformazione dell'isoritmia all'interno della composizione, producendo un effetto unificatore complessivo senza che l'ascoltatore potesse capire, a prima vista, da che cosa derivasse tale effetto.
Il mottetto isoritmico trecentesco, continuato quale forma viva nelle nuove composizioni per più di un secolo, presentava infatti un'isoritmia rintracciabile ormai solo sulla partitura, essendo essa divenuta assolutamente inavvertibile all'ascolto: una prova di più, questa, della tendenza alla preziosità presente nelle composizioni polifoniche del sec.XIV, destinate ai teorici e agli specialisti più che ad un pubblico profano, laico o religioso che fosse.
Roma, 1989
Bibliografia
R.FICKER, Polyphonic Music of the Gothic Period, in The Musical Quaterly, London 1929
M.SCHNEIDER, Die Ars Nova des XIV. Jahrhunderts in Frankreich und Italien, Berlino 1930
C.E.H. COUSSEMAKER, Scriptorum de musica medii aevi nova series (1864-1876), London 1931
H.BESSELER, Die Mottette von Franko von Köhln bis Philippe von Vitry, in Archiv für Musikwissenschaft, Berlino 1936
C.SARTORI, La notazione italiana del Trecento in una redazione inedita del "Tractatus pratice cantus mensurabilis ad Modum Italicorum" di Prosdocimo de Beldemandis, Padova 1938
G.Dufay, Supremum est mortalibus, Cantica Symphonia