1. Volontà di Potenza
NELLE PAROLE DI NIETZSCHE UN'ANTITESI RADICALE
AI VALORI DEL MONDO MODERNO
di Friedrich Nietzsche
L'uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo, una fune sopra l'abisso.
Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino,
un pericoloso guardare indietro, un pericoloso arrestarsi.
Ciò c'è grande nell'uomo è d'essere un ponte e non uno scopo:
ciò che si può amare nell'uomo pericoloso rabbrividire e è il suo essere un passaggio e un tramonto.
Amo quelli che non sanno vivere che per sparire, poiché son coloro, appunto, che vanno al di là.
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
1. Morale dei signori e morale degli schiavi
Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi.
(...) Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la nozione di "buono", sono gli stati di elevazione e di fierezza dell'anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L'uomo nobile separa da sè quegli individui nei quali si esprime il contrario di stati d'elevazione e di fierezza - egli li disprezza. (...) E' disprezzato il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta utilità; similmente lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia maltrattare, l'elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore - è una convinzione basilare di tutti gli aristocratici che il popolino sia mendace. "Noi veritieri" - così i nobili chiamavano se stessi nell'antica Grecia. (...)
L'uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è "quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso", conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. (…)
Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede nella pietà o nell'agire altruistico o nel desintéressment l'elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l'orgoglio di sé, una radicale inimicizia e ironia verso il "disinteresse" sono compresi nella morale aristocratica, esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di simpatia e al "calore del cuore" (…)
Ma soprattutto una morale dei dominatori è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio che si hanno doveri unicamente verso i propri simili; che nei riguardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli estranei sia lecito agire a proprio piacere o "come vuole il cuore" e comunque sempre "al di là del bene e del male": è sotto quest'ultimo aspetto che possono avere il proprio posto la compassione o altre cose del genere.
La capacità e l'obbligo di una lunga gratitudine e di una lunga vendetta – le due cose solo entro la sfera dei prorpi simili – la sottigliezza nella rappresaglia, l'affinamento dell'idea di amicizia, una certa necessità di avere dei nemici (come canale di deflusso, per così dire, per le passioni dell'invidia, della litigiosità, della tracotanza – in fondo per poter essere buoni amici): tutti questi sono caratteri tipici della morale aristocratica, la quale, come ho accennato, non è la morale delle "idee moderne", ed è per questo che oggi risulta difficile sentirla ancora, come pure disseppellirla o discoprirla.
*
Diversamente stanno le cose per il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi.
Posto che gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l'elemento omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Possibilmente troverà espressione un pessimistico sospetto verso l'intera condizione umana, forse una condanna dell'uomo unitamente alla sua condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di "buono" venga tenuto in onore in mezzo a costoro -, vorrebbe persuadersi che tra quelli la felicità non è genuina. All'opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l'esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità, l'umiltà, la gentilezza a essere poste in onore – giacché sono queste, ora, la qualità più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell'esistenza.
La morale degli schiavi è essenzialmente una morale utilitaria.
(…) Deve allora aver suoni aspri e tutt'altro che gradevoli agli orecchi la nostra rinnovata insistenza nel dire che è l'istinto dell' uomoanimale d'armento quel che in lui crede di saperne abbastanza a questo proposito, che celebra se stesso con la lode e il biasimo e chiama se stesso buono: come tale, questo istinto è arrivato a farsi strada, a predominare e a signoreggiare sugli altri e guadagna sempre più terreno, in armonia a quel crescente processo di convergenza e di assimilazione fisiologica di cui esso è un sintomo.
La morale è oggi in Europa una morale d'armento,dunque, stando a come intendiamo noi le cose – nient'altro che un solo tipo di morale umana, accanto, avanti e dopo la quale molte altre, soprattutto morali superiori, sono o dovrebbero essere possibili.
Contro una tale "possibilità", contro un tale "dovrebbe", questa morale però si difende con tutte le sue forze: essa si affanna a dire con ostinazione implacabile: "io sono la morale in sé, e non v'è altra morale se non questa!" – anzi, sostenuta da una religione che appagava le più sublimi concupiscenze delle bestie da mandria, lusingandole [il riferimento è alla religione cristiana, n.d.r.], si è giunti al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali troviamo un'espressione sempre maggiormente evidente di questa morale; il movimento democratico costituisce infatti l'eredità di quello cristiano. (…)
2. Contro la democrazia
Noi invece, che abbiamo una fede diversa – noi, per i quali il movimento democratico rappresenta non soltanto una forma di decadenza dell'organizzazione politica, ma anche una forma di decadenza, cioè d'immiserimento, dell'uomo stesso, un suo mediocrizzarsi e invilirsi: dove dobbiamo tendere noi, con le nostre speranze? – Verso nuovi filosofi, non c'è altra scelta: verso spiriti abbastanza forti e originali da poter promuovere opposti apprezzamenti di valore e da trasvalutare, capovolgere "valori eterni": verso precursori, verso uomini dell'avvenire che nel presente stringono imperiosamente quel nodo che costringerà la volontà di millenni a prendere nuove strade.
Per insegnare all'uomo che l'avvenire dell'uomo è la sua volontà, è subordinato a un volere umano, e per preparare grandi rischi e tentativi totali di disciplina e d'allevamento, allo scopo di mettere in tal modo fine a quell'orribile dominio dell'assurdo e del caso che fino ad oggi ha avuto il nome di "storia" – l'assurdo del "maggior numero" è soltanto la sua forma ultima -: per questo sarà, a un certo momento, necessaria una nuova specie di filosofi e di reggitori, di fronte ai quali tutti gli spiriti nascosti, terribili e benigni, esistiti sulla terra, sembreranno immagini pallide e imbastardite.
E' l'immagine di tali condottieri che si libra dinanzi ai nostri occhi: posso dirlo forte a voi, spiriti liberi? Le circostanze che si dovrebbe in parte creare, in parte utilizzare, perché essi sorgano; le vie e le prove presumibili, in virtù delle quali un'anima potrebbe crescere sino a un'altezza e a una forza tali da sentire lacostrizioneverso questi compiti; una trasvalutazione dei valori, sotto il nuovo torchio e martello della quale una coscienza verrebbe temprata e un cuore trasmutato in bronzo, così da poter sopportare il peso di una nuova responsabilità; e d'altro canto la necessità di tali condottieri, il tremendo pericolo che essi possano non giungere, o fallire, o degenerare – queste sono lenostrevere ambasce e abbuiamenti, lo sapete voi, voi, spiriti liberi?
(…) Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano; essi affermano "così deve essere!": essi determinano in primo luogo il "dove" e l' "a che scopo" degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato – essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza.
- Esitono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Nondevonoforse esistere tali filosofi?
Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male,
Sils-Maria, Engandina, 1886
2. Il filosofo proibito
PENSIERO MAGICO, ALCHIMIA, FILOSOFIE ORIENTALI,
"LETTERATURA DELLA CRISI", DENUNCIA DEI POTERI FORTI:
NELLE OPERE DI EVOLA I TEMI CALDI DEI NOSTRI GIORNI *
di Gianfranco De Turris
(…) [Nel Sessantotto] la "contestazione" si limitava a opporre una dissacrazione larvata, ipocrita e borghese del conformismo; Evola spiegava [invece] a una generazione in rivolta i veri e i falsi bersagli, i nemici reali e i nemici fittizi, riusciva a disvelare la contiguità della chiassosa contestazione con l'ovattata conservazione, la falsa antitesi fra due mondi che si rivelavano in fondo apparentati, adiacenti, omogenei. (Marcello Veneziani, Evola e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere il Sessantotto, in AA.VV, Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1973, pp.330-331)
Questo è un Paese che si adatta a tutto e alla fine accetta tutto: classicisti che fanno l’apologia di Stalin come grande statista e modernizzatore dell’Urss non intaccato dall’esistenza dei gulag e dei loro morti; scrittori condannati in via definitiva per omicidio (uno all’estero e l’altro graziato da Scalfaro) che pubblicano i loro romanzi senza problemi - e guai a ricordarne i precedenti; negazionisti e negazioniste dell’olocausto istriano e delle foibe ospiti graditi in tv nel nome del pluralismo; ex terroristi delle Br che presentano le loro verità in luoghi pubblici e istituzionali senza ostacoli, se non le proteste dei parenti delle vittime.
Tutti in Italia possono fare e dire e pubblicare e parlare. Ma prova tu a chiedere che qualche assessore alla cultura appoggi il tuo progetto di ricordare i 40 anni dalla morte di Julius Evola, che ricorrono oggi, e vediamo le reazioni... L’unico che ebbe il coraggio di farlo nel 1998 a Roma fu il compianto Gianni Borgna, comunista, che non ebbe paura e lo finanziò, così come fece a Milano Marzio Tremaglia. Nessuno ha preso esempio dalla sua apertura mentale, purtroppo. Merito di una parolina magica, «fascista», di fronte alla quale non c’è replica che tenga...
Parlare di Evola, recensirlo, introdurre i suoi libri sembra essere ritenuto una colpa, qualcosa di sconveniente, che ti fa correre il rischio di finire nel mirino dei commentatori «moderati» ma politicamente più che corretti, o magari dei «centri sociali». Eppure questo pensatore, un vero e proprio outsider della cultura italiana del Novecento, si dimostra quanto mai attuale proprio per le sue analisi fuori dal coro, per averle fatte in una prospettiva non limitata al contingente, ma avendo lo sguardo proiettato lontano. Un buon motivo, dunque, per leggerlo e rimeditarlo, tralasciando tutti i luoghi comuni che si sono affastellati sulla sua figura.
Facciano qualche esempio, necessariamente stringato, di analisi anticipatrici, uno dei tanti modi per affrontare il suo pensiero dopo otto lustri.*Il tentativo di Evola di andare oltre l’idealismo e di approdare, come ultima conclusione, al pensiero magico (Teoria dell’individuo assoluto, 1927; Fenomenologia dell’individuo assoluto, 1930 - queste e tutte le altre opere citate sono ora riedite dalle Edizioni Mediterranee) non fu velleitario ma aprì una «terza via» filosofica e lo colloca come uno dei maggiori pensatori italiani del Novecento accanto a Croce e Gentile (Franco Volpi).
La magia e l’alchimia, allora e adesso ridicolizzate a causa dei ciarlatani e dei cartomanti, sono state studiate e presentate quali vie realizzative interiori, come ha poi spiegato la psicologia analitica (Introduzione alla magia, 1927-9; La tradizione ermetica, 1931). Ieri imperversavano le false religioni, le sette, le pseudo-dottrine salvifiche, l’occultismo, il satanismo. Oggi è lo stesso. Evola le criticò in Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (1932) in nome di una e per una difesa dell’Io.
Nella sua opera maggiore, Rivolta contro il mondo moderno (1934), che rientra a pieno diritto nella «letteratura della crisi», descrisse la nascita del «mondo moderno» in contrapposizione al «mondo della Tradizione», svelando le radici della decadenza che ora abbiamo pienamente sotto gli occhi. La moda del Graal, che ha imperversato per due decenni con libri improbabili e ridicoli, era stata ben più seriamente anticipata da Evola ne Il mistero del Graal (1937) che presenta come allegoria e simbolo della via imperiale.Tantrismo e Zen, Buddha e Lao-Tze sono diventati popolarissimi con la New Age e la fuga in Oriente di tanti giovani occidentali in cerca della «illuminazione».
Una visione ante litteram profondamente consapevole degli aspetti dimenticati di simili dottrine e autori è nei suoi L’uomo come potenza (1926), La dottrina del risveglio ( 1943), Lo yoga della potenza (1949).Una critica all’economicismo, alla finanza anonima, alla politica succube dei «poteri forti» è ne Gli uomini e le rovine (1953), mentre un richiamo a quei valori etici e alla necessità di tenere «la schiena dritta» (per usare la frase del presidente Ciampi) di fronte alle tentazioni del potere, a un recupero di dignità e serietà nell’azione pubblica è in Orientamenti (1950) e anche in Cavalcare la tigre (1961). Se la destra politica ne avesse tenuto conto non sarebbe sprofondata anch’essa in tanti scandali.
Se ne Il fascismo (1964) anticipa un revisionismo storico visto da destra, in Metafisica del sesso (1958) rende dignità ad un aspetto della vita che oggi è pervasivo, contraddittorio, banalizzato e degradato in una patologia inquietante.*
Naturalmente Julius Evola è stato anche altro, e questi sono soltanto pochi esempi per un lettore interessato a certi aspetti più diretti e contingenti del suo pensiero. Si è occupato di svariati argomenti e su di essi ha scritto. Per questo Evola lo si deve intendere complessivamente e non estrarre alcuni suoi aspetti per osannarlo o condannarlo. Del resto, è quel che si fa nei confronti di tantissimi altri fondamentali autori del Novecento (d’Annunzio, Pound, Marinetti, Mishima, Céline ecc.).
Non si capisce perché non lo si dovrebbe fare per Julius Evola.
Per capire il Novecento bisogna leggere Evola, è stato detto. E si potrebbe aggiungere che per capire il mondo del XXI secolo, con le sue contraddizioni, il suo cupio dissolvi, il nichilismo, la secolarizzazione, il disincanto, l’abbandono di ogni certezza anche personale, addirittura sessuale, bisogna leggere Evola.
Evola è, pur con le sue difficoltà e asprezze filosofiche, uno dei pochi, se non l’unico, a fornire indicazioni per non far sopraffare il tuo Io, conciliando, fra i pochissimi, metafisica e concretezza, meditazione e azione.Ognuno, leggendolo, deve scegliere la sua via, anzi, per l’esattezza, il suo cammino personale.
Gianfranco De Turris,
Julius Evola oltre il muro del tempo. Ciò che è vivo a 40 anni dalla morte,
Convegno di Studi, Roma, Palazzo Ferrajoli, 11 Giugno 2014
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/1026198.html
* Personalmente non sono un estimatore di Evola (a parte le sue parole su Bachofen ne "Il cammino del cinabro" e poco altro): tuttavia, proprio perché ostracizzato dai benpensanti del "pensiero unico" dominante, quasi quasi mi risulta simpatico.Dico "quasi" perché, pur riconoscendone l'indubbio spessore intellettuale e filosofico, lo ritengo uno dei maggiori responsabili, perlomeno a livello teorico, della tragica deriva postbellica del neofascismo italiano.Se oggi infatti il pensiero della Tradizione – pur con tutte le sue contraddizioni – si ritrova a essere demonizzato dalla cultura italiana contemporanea, è anche grazie alle scelte eversive compiute dai "cattivi maestri" della destra italiana nel dopoguerra: pur riconoscendo dunque come giustificate le osservazioni di De Turris riportate nel seguente articolo (che per questo motivo ho voluto qui pubblicare, in antitesi al dogma dominante del "politicamente corretto"), non posso nel contempo non sottolineare la responsabilità del filosofo nell'aver contribuito, nei fatti, a emarginare il pensiero tradizionale dal sentire comune dell'Italia contemporanea.Il che, francamente, non è poca cosa. (PGZ)