UNA FIABA ARCHETIPICA SUL FATICOSO PERCORSO D'INDIVIDUAZIONE
Quando non si è mai conosciuta la felicità non si ha il diritto di disprezzarla (Yukio Mishima)
Si era nel pieno dell’estate, e la campagna era bellissima: alle tonalità gialle del grano si alternavano quelle verdi dell’avena, mentre il fieno giaceva sui prati in grandi mucchio. La cicogna passeggiava sulle sue lunghe zampe rosse, parlottando fra sé in egiziano, la sua lingua materna. I prati e i campi erano circondati dai boschi, e nel folto dei boschi c’erano laghi profondi. Immerso in questo splendido paesaggio c’era anche un antico castello, circondato da profondi fossati. Era lambito dal sole, e tra l’acqua e le mura crescevano piante di luppolo così rigogliose che un bambino avrebbe potuto nascondersi sotto la loro folta chioma anche rimanendo in piedi.
In mezzo a tutta quella vegetazione aveva fatto il nido un’anatra, e ora se ne stava lì a covare. Ormai si era stancata di quel compito, perché covare è noioso e già da un po’ nessuno la veniva a trovare. Le sue amiche pennute, infatti, preferivano sguazzare liberamente nel canale, invece che rimanere tra il fogliame a tenerle compagnia.
Un bel giorno però “pip! pip! pip!” le uova si ruppero a una a una e dal loro guscio spuntarono le testoline degli anatroccolini.
“Qua, qua, qua” li chiamava la mamma. Dopo un po’ anche loro cominciarono a risponderle, e a gironzolare fra le foglie guardandosi attorno incuriositi. L’anatra li lasciava fare, perché, pensava, il verde è un colore che fa bene agli occhi, e imparare a guardarsi intorno è una buona cosa.
“Com’è grande il mondo” dicevano gli anatroccoli, e non c’è da stupirsene, perché il mondo è molto più largo di un guscio d’uovo! “E voi credete che il mondo sia tutto qui?” esclamò allora la madre. “Il mondo va ben più lontano … oltre il giardino, e fino al prato del pastore … ma io non sono mai stata così lontana.”
Poi si alzò e disse:”Beh, vediamo un po’ se ci siete tutti…” Ma, ahimè, l’uovo più grosso non si era ancora dischiuso, e con un sospiro la poveretta si rimise a covare.
Non passò molto che venne a farle visita una vecchia anatra, la quale la salutò dicendo “Dì un po’, come te la passi?” Lei si lamentò: ”Sto covando quest’uovo da così tanto tempo, e ancora non si vede una sola incrinatura. Ma guarda gli altri: sono una vera bellezza. Somigliano tutti al loro padre, quel mascalzone … mai una volta che passasse a trovarmi”.
“Fa un po’ vedere quest’uovo” disse la vecchia anatra “se ci mette così tanto tempo a dischiudersi potrebbe anche essere un uovo di tacchina. Proprio come sospettavo: è un uovo di tacchina, anche a me hanno fatto lo stesso scherzo, tanto tempo fa. Fu un vero e proprio calvario, perché già gli altri piccoli mi davano tanto da fare, sai com’è, e lui aveva una paura matta dell’acqua. Mi ci provai in tutti i modi, con le parole e le maniere pesanti, ma lui non volle entrarci neanche per sogno! Dammi retta, lascialo stare, e curati piuttosto degli altri.” Come? Dopo tutto il tempo che l’ho covato?” disse l’anatra. “Mi sa tanto che continuerò a provarci ancora per un po’.” “Fa un po’ come ti pare” disse la vecchia in tono stizzito. E se ne andò per i fatti suoi.
Alla fine l’uovo grosso si dischiuse e con una serie di “pip! pip!” ne uscì il piccolo: era molto grosso e brutto. La madre lo osservò a lungo, pensando: ”Santo cielo quanto sei grosso e brutto figlio mio” e domandandosi: ”Non sarà mica un pulcino di tacchino per davvero?” Alla fine decise : ”Staremo a vedere caro il mio figliolo, dovrai entrare in acqua al più presto, a costo di buttartici dentro a calci!”
L’indomani era una giornata radiosa e il sole faceva luccicare le verdi foglie del luppolo. Mamma Anatra si incamminò insieme con la sua prole verso il fossato. Arrivata al bordo del corso d’acqua si tuffò con un sonoro ‘pluff!’ Poi, con un allegro “qua! qua!” invitò i piccoli a seguirla. Uno dopo l’altro, gli anatroccoli si tuffarono, sparendo per un istante sotto la superficie dell’acqua, ma ritornando subito a galla e lasciandosi dolcemente trasportare dalla lieve corrente. Senza nemmeno farci caso, tutti avevano cominciato a nuotare, e le zampette si muovevano da sole.
C’erano proprio tutti: anche l’anatroccolo grosso e grigiastro. “Ma allora non è un tacchino!” esclamò Mamma Anatra. “Come nuota bene, e con le gambe ben dritte! A guardarlo bene deve essere proprio figlio mio … e alla fine dei conti non è nemmeno tanto brutto!”
Mamma Anatra s’era proprio levata un peso dal cuore, per cui cominciò a radunare attorno a sé i suoi piccoli: “Qua, qua, qua, venite, venite, vi farò conoscere il mondo … per prima cosa andremo al cortile … ma voi statemi sempre vicini e soprattutto state bene attenti al gatto!”
Il cortile, luogo d’incontro del pollame, era sempre molto rumoroso e quando vi entrarono c’era un chiasso tremendo, perché due famiglie rivali si stavano disputando la testa di un’anguilla. Tira a destra, tira a manca, alla fine la testa d’anguilla andò a finire tra i denti del gatto.
“Vedete come va il mondo?” disse Mamma Anatra ai suoi piccoli. Intanto, però, stava leccandosi il becco, perché la testa d’anguilla aveva fatto gola anche a lei. “Adesso seguite me” proseguì “e tentate di muovere più in fretta le zampette. Poi, quando arriveremo al cospetto di quella vecchia anatra là in fondo, piegate il collo in segno di rispetto.E’ l’anatra più distinta da queste parti, la più nobile. Pensate che è di sangue spagnolo! Guardate il fiocchetto rosso che ha legato alla zampa: è un’onorificenza molto importante, e significa che lei, qui, quella cui si tiene di più, e uomini e animali non devono mai mancarle di rispetto.”
Gli anatroccoli seguirono ubbidienti gli ordini della loro mamma, ma non appena furono in mezzo alle altre anatre si levarono delle voci: “Guarda guarda che plotone. Come se non si fosse già in troppi da queste parti!” “E guardate quello lì, com’è brutto!” “Ah no! Quello proprio non lo vogliamo!”
Subito un’anatra, evidentemente la più cattiva di tutte, si levò in volo ed andò a beccare l’anatroccolo sul collo. “Lascialo stare” intervenne Mamma Anatra “non ti ha fatto niente di male!” “E’ troppo grosso e brutto” rispose quella con voce crudele “e stai pur certa che da queste parti ne prenderà tante di beccate!”
Intervenne allora l’anatra con il fiocco legato alla zampa: “Mi congratulo per i nuovi venuti, comare anatra” disse “ma quello grosso e brutto ti è proprio venuto male. Verrebbe di consigliarti di rifarlo da capo ”.
“Purtroppo non si può, vostra eccellenza” rispose Mamma Anatra mentre col becco lisciava le piume al suo piccino. “In effetti è brutto, ma ha un buon carattere e nuota benissimo, quasi meglio degli altri. E poi, magari col tempo migliorerà. E’ così grosso e strano perché è rimasto nell’uovo troppo a lungo, ma è un maschio, quindi non importa. Sono convinta che riuscirà lo stesso a farsi strada nella vita.”
“I vostri anatroccoli sono bellissimi” disse la vecchia anatra col fiocco “siate i benvenuti, e fate come se foste a casa vostra. A proposito” aggiunse poi “se vi capita di trovare una testa d’anguilla, portatemela pure.”
Così gli anatroccoli si sparpagliarono nel cortile, facendo come se fossero a casa propria. Il povero anatroccolo uscito dall’uovo per ultimo, tuttavia, venne maltrattato e beccato da tutti: dalle anitre come dai polli. Non parliamo poi del tacchino, che per via di quello sperone che si ritrovava sulle zampe si credeva il re del cortile, e che gli saltò addosso col petto gonfio come una mongolfiera e la testa tutta rossa, emettendo il suo minaccioso “glu! glu! glu!”
Il povero anatroccolo non sapeva più dove rifugiarsi: era tanto triste, perché era brutto e nessuno gli voleva bene. Così trascorse il primo giorno, ma gli altri furono anche peggiori. Tutti lo maltrattavano. I suoi stessi fratelli gli gridavano dietro: “Via di qui, brutto mostro!” e perfino a sua madre scappò detto : “Come vorrei che tu fossi lontano da qui!” Le anatre lo sbatacchiavano di qua e di là, le galline lo beccavano, e la serva lo faceva ruzzolare lontano con una pedata ben assestata tutte le volte che se lo trovava davanti.
Il poveretto non ce la faceva più, e un bel giorno decise di fuggire lontano. Detto e fatto, balzò oltre la siepe, e subito uno stormo di uccellini si levò in volo.
“Oh povero me” pensò l’anatroccolo “ho spaventato anche loro: devo essere davvero un mostro!” e continuò a scappare: scappò e scappò finché non giunse alla Grande Palude dove dimoravano le anatre selvatiche. Qui si fermò per la notte.
La mattina seguente, le anatre selvatiche si svegliarono e notarono immediatamente il nuovo venuto, accovacciato in un angolo. “Ciao, chi sei, da dove vieni, che cosa fai qui?” gli chiesero incuriosite andandogli incontro. L’anatroccolo le salutò chinando il collo alla bell’e meglio.
“Lo sai che sei bruttissimo?” gli dissero quelle. “Ma ci sei simpatico lo stesso; basta che non pretendi di sposarti con qualcuno della nostra famiglia!” Povero anatroccolo! Lui non desiderava che un angolino fra le canne e il permesso di bere un po’ dell’acqua della palude, altro che famiglia! Così le anatre lo lasciarono stare.
Dopo un paio di giorni passarono di lì due oche selvatiche, anzi due paperi (infatti erano tutti e due maschi) che, essendo usciti dall’uovo da poco, erano un po’ sbruffoncelli. “Salve amico” gli dissero “sei così brutto che ci sei simpatico: che ne dici di unirti a noi e diventare uccello di passo? Conosciamo una palude non lontana da qui, dove ci sono delle ochette selvatiche che sono uno schianto! Passano tutto il giorno a fare qua!qua! e chissà che tu, con quella tua bruttezza tutta particolare, non possa fare colpo su di loro … ”
Ma tutt’a un tratto echeggiarono degli spari: “Bang! Bang!” e i due paperi caddero fra le canne, tingendo l’acqua di sangue. “Bang! Bang!” si udì nuovamente, e uno stormo di anatre selvatiche si alzò in volo al di sopra della palude. Erano arrivati i cacciatori: alcuni si erano nascosti intorno alla palude, mentre altri erano dietro alle fronde degli alberi che crescevano nei canneti.
Il fumo azzurrognolo degli spari già calava e si stendeva come un lenzuolo sull’acqua della palude, quando nel fango si udirono i passi dei cani: “Ciack! Ciack! Ciack!”, le canne si piegavano al loro passaggio, mentre il povero anatroccolo tremava di paura. Disperato, stava tentando di nascondere il capino sotto un’ala, quando gli si parò davanti un cagnaccio enorme. Aveva una lingua lunghissima che gli penzolava fuori della bocca, e gli occhi fiammeggianti. Si avvicinò all’anatroccolo, allungando il muso per annusarlo, poi scoprì una spaventosa fila di denti aguzzi e quindi, “Ciack! Ciack! Ciack!”, si allontanò da lui a passo di corsa.
“Fiuuu … c’è mancato un pelo” fece l’anatroccolo: “Grazie a Dio sono così brutto che anche al cane è passata la voglia di mordermi!” E così se ne stette rintanato nel canneto, mentre i pallini gli fischiavano intorno e tutta la palude era squassata dalla battuta di caccia.
La calma ritornò soltanto a giorno inoltrato, ma l’anatroccolo non aveva il coraggio di muovere una piuma. Rimase immobile parecchie ore prima di guardarsi attorno, e poi si mise a correre a più non posso attraverso prati a campagne avanzando a stento per il gran vento che si era alzato.
Sul far della sera arrivò a una baracca di contadini talmente malmessa che l’unico motivo per cui rimaneva ancora in piedi era che non sapeva bene da che parte crollare. Per ripararsi dall’impeto del vento, il povero anatroccolo si rifugiò dietro alla baracca, ma anche dopo essersi accovacciato ben bene, si sentiva spazzare via. Allora, vedendo che la porta era appesa a uno solo dei cardini, e che lasciava aperta una grossa fessura, si intrufolò all’interno della baracca.
Lì vivevano una vecchia signora, il suo gatto e la sua gallina. Il gatto si chiamava Bimbo e sapeva inarcare la schiena, fare le fusa e sprizzare scintille (ma solo se lo si accarezzava contropelo); la gallina aveva le zampe molto corte e per questo veniva chiamata Gambacorta. Era una vera maestra nel deporre le uova, e per questo motivo la vecchina le voleva bene come a una figlia.
Non appena si fece giorno tutti si avvidero della presenza di un nuovo ospite. Vedendo l’anatroccolo, il gatto cominciò a fare le fusa, e la gallina a cantare: “Coccodè! Coccodè!” “Che c’è? Che c’è?” le domandò la vecchia guardandosi intorno. Siccome poi era un po’ orba, non appena vide l’anatroccolo immaginò che fosse un’anatra adulta che si era smarrita. “Alleluia!” disse “Il buon Dio ha voluto farci dono di un’anatra; e ora avremo uova d’anatra ... a meno che naturalmente non sia un maschio ... Beh, non c’è che da metterla alla prova.”
E così l’anatroccolo fu assunto in prova per tre settimane; ma purtroppo non di uova riuscì a farne nemmeno una. In quella casa i veri padroni erano il gatto e la gallina, ed era loro opinione che il mondo si dividesse in due: da una parte c’erano loro due, e dall’altra il resto dell’umanità. Inoltre erano convinti che la loro parte fosse quella migliore.
L’anatroccolo si permetteva di pensarla diversamente, ma non c’era verso di convincerli a rispettare la sua opinione. “Sai forse fare le uova tu?” gli domandava la gallina. “Veramente no” rispondeva lui. “E allora non mettere becco nelle conversazioni che non puoi capire!” “E sai forse inarcare la schiena tu?” gli chiedeva il gatto. “Non direi” rispondeva l’anatroccolo. “Allora dovresti chinare il capo davanti a chi ne sa più di te!” E al povero anatroccolo non restava che accucciarsi in un angolo triste e imbronciato.
Un bel giorno gli venne nostalgia della vita all’aria aperta, del sole e soprattutto di una bella nuotata. Così lo disse alla gallina. “Eh?” gli rispose lei. “Ma guarda un po’ che cosa ti va a passare per la testa! Dev’essere colpa del fatto che te ne stai tutto il giorno senza far niente. Dovresti, piuttosto, imparare a fare le uova, o magari a fare le fusa, e sicuramente la mattina ti passerebbe.”
Allora l’anatroccolo replicò: “Ma è così bello starsene a galla sull’acqua. Ed è così divertente tuffarsi e toccare il fondo, per poi risalire in superficie!” “Proprio un gran divertimento!” disse la gallina. “Devi esserti rimbecillito! Prova a domandare al gatto se gli piace nuotare e tuffarsi sott’acqua non gli piace nemmeno un po’. Per quanto mi riguarda, scordati pure che io ti dia ragione! E se proprio vuoi essere sicuro, vai a domandare alla padrona in persona. Più intelligente della padrona non c’è nessuno al mondo, e posso scommettere quello che vuoi che nemmeno a lei piace nuotare e mettere la testa sott’acqua.”
“Ma voi non mi capite!” replicò l’anatroccolo. “Come no?” disse la gallina. “Adesso siamo noi che non ti capiamo … E chi ti capisce allora? Forse non ti rendi conto che parlando in questo modo hai la sfrontatezza di definirti più intelligente della padrona o del gatto, per non parlare di me! Faresti meglio ad abbassar la cresta pulcino e a ringraziare il Signore per la fortuna che hai avuto a capitare qui al calduccio, e a trovarti un’ottima compagnia da cui hai solo da imparare. Sei proprio uno strano mostriciattolo, e per niente divertente, lo sai? Tieni presente che queste cose te le dico per il tuo bene! Lo dico sempre io: a che cosa serve un amico, se non parla chiaro? Dai retta a me. Impara a fare le uova, e le fusa, e a strizzare scintille quando ti accarezzano: vedrai che le cose andranno meglio.”
“Io invece credo che la cosa migliore per me sia di partire e andare in giro per il mondo” disse l’anatroccolo. “Se la vedi così, allora forse è meglio che te ne vada” disse la gallina. E l’anatroccolo partì. Si tuffò in acqua, nuotò … ma nessuno lo prendeva in considerazione, perché era troppo brutto.
Arrivò l’autunno, le foglie degli alberi divennero gialle, l’aria si fece gelida, e alti nel cielo passavano grandi nuvolosi cariche di neve e grandine.
“Craa! Craa! Craa!” gracchiava per il freddo il corvo appollaiato sulla siepe. Povero anatroccolo, come soffriva! Una sera, durante uno splendido tramonto, uscì dal fitto del bosco uno stormo di grandi e bellissimi uccelli. L’anatroccolo non ne aveva mai visti di così belli: avevano lunghi colli flessuosi, ed erano di un candore immacolato. Erano cigni. Fecero uno strano verso e poi, battendo le loro grandi ali, si levarono alti nel cielo. Fuggivano al gelo e volavano verso i paesi caldi e l’ampia e libera distesa del mare. Puntavano sempre più in alto, e l’anatroccolo si sentì invadere da uno strano desiderio: cominciò a girare in tondo sull’acqua, tendendo il collo verso di loro e mandando un verso talmente acuto che per un momento ebbe paura di se stesso.
Quegli uccelli bellissimi gli si erano impressi nel cuore e nel cervello. Quando scomparvero alla sua vista, l’anatroccolo si immerse nell’acqua fino a toccare il fondo. Riemerse che era fuori di sé: non conosceva il loro nome, né dove fossero diretti, eppure amava quelle meravigliose creature come non aveva mai amato nessun altro. Nei loro confronti tuttavia, non provava la benché minima invidia: come sarebbe stato possibile che lui, brutto com’era, provasse invidia per delle creature tanto sublimi? A lui, poverino, sarebbe bastato essere tollerato dalle anatre!
Venne un inverno rigidissimo, e l’anatroccolo doveva nuotare di continuo per evitare che l’acqua gli si gelasse tutt’intorno. Ogni notte, tuttavia, l’acqua in cui nuotare diventava sempre meno e il ghiaccio cominciò ben presto a scricchiolargli intorno. L’anatroccolo continuò a muovere incessantemente le zampe fino a che fu stremato.
Poi, una brutta notte rimase fermo, il ghiaccio si chiuse intorno a lui e lo imprigionò. Il mattino seguente capitò da quelle parti un contadino che, vedendo l’anatroccolo, spezzò il ghiaccio con uno dei suoi zoccoli di legno e portò la bestiola a casa dalla moglie e dai figli. Insieme lo asciugarono, lo riscaldarono e lo fecero riprendere.
Felicissimi i bambini gli si fecero incontro per giocare con lui. Credendo che gli volessero fare del male l’anatroccolo si spaventò. Spiccò un gran balzo indietro, andando a finire nel secchio del latte e schizzando latte in tutta la stanza. Poi saltò di nuovo, andando ad atterrare nel mastello del burro e spandendo burro su tutto il pavimento. Saltò allora per la terza volta, finendo dritto dritto nel barile della farina e alzando un gran nuvolone bianco.
Quando ne uscì era ridotto da far spavento. La donna lo inseguiva con le molle del camino, urlando a più non posso; i ragazzini inciampavano l’uno nell’altro e ridevano come matti nel tentativo di acciuffarlo. A un certo punto il poveretto si accorse che la porta di casa era aperta e con un gran frullar d’ali riuscì ad uscire e a rifugiarsi fra alcuni cespugli, dove rimase stordito in mezzo alla neve appena caduta.
La storia delle sofferenze che il povero anatroccolo patì durante quel gelido inverno sarebbe troppo triste, per cui ci converrà passare direttamente al momento in cui tornò a splendere il sole primaverile.
L’anatroccolo si trovava nel canneto della palude, dove le allodole cantavano allegramente. Aprì le ali, che adesso avevano un fruscio insolito e lo sostenevano forti e sicure; senza neanche rendersene conto si trovò in un gran giardino pieno di meli fioriti e sambuchi profumati che piegavano i loro rami fino a lambire le acque di un ruscello serpeggiante. Il giardino era così bello e pervaso dalla frescura di primavera!
A un tratto comparvero davanti a lui, galleggiando leggeri sull’acqua, tre splendidi cigni bianchi. L’anatroccolo si ricordò subito di quei meravigliosi uccelli, e fu colto da un’indicibile tristezza. “Devo avvicinarmi a questi uccelli dal portamento regale!” pensò. “Ma, ahimè, mi uccideranno a forza di beccate, perché brutto come sono ho osato andargli incontro! Non fa niente: meglio essere ucciso da loro che essere maltrattato da galline, e anatre, e ragazzi dei pollai, oppure morire di freddo fra i rigori dell’inverno!”
Detto e fatto, si gettò in acqua, e nuotò incontro ai bellissimi cigni. Non appena lo videro, quelli gli si avvicinarono gonfiando le piume. “Che sia fatto il mio destino” disse l’anatroccolo ormai certo di andare incontro alla morte, e abbassò umilmente il capo … Ma ecco che, riflesso nell’acqua limpida, vide se stesso: non era più il brutto anatroccolo di una volta, grigio e privo di grazia. Era diventato anch’egli un cigno!
Che cosa importa nascere in un pollaio, se si esce da un uovo di cigno? Tutte le sofferenze, i patimenti, le cattiverie e le ingiustizie subite gli fecero ancor più apprezzare quel momento di gioia indicibile.
I cigni gli si avvicinarono e cominciarono ad accarezzarlo con il becco. Vennero dei bambini che, dalla sponda del ruscello, gettarono loro chicchi di grano e mollica di pane; poi il più piccolo di loro cominciò a gridare: “C’è un cigno, uno nuovo!” Gli altri cominciarono a gridare per la gioia e a battere le mani, poi corsero a chiamare il babbo e la mamma, portando ai cigni altro pane e dolciumi. Tutti esclamavano: “Com’è bello ed elegante il nuovo venuto! E’ il più bello di tutti”, mentre i cigni più vecchi gli facevano graziosi inchini.
Lui nascose il capo sotto l’ala, forse perché tutti quei complimenti lo intimidivano, o forse perché era troppo felice. Felice sì, ma non superbo, perché in un cuore buono non c’è posto per la superbia! Lui ricordava bene com’era stato deriso, schernito, maltrattato e cacciato per via della sua bruttezza, e adesso tutti non facevano che ripetere che era il più bello fra quegli uccelli bellissimi, e ancora stentava a crederci …
I rami dei sambuchi lambivano la superficie dell’acqua, e l’aria era dolcemente riscaldata dal sole. In cuor suo lui esultò: “Quanta felicità! Mai avrei creduto di poterla provare quand’ero un brutto anatroccolo!”
Hans Christian Andersen