UN INTERVENTO ILLUMINANTE SULL'ALLONTANAMENTO EUROPEO DALLA TRADIZIONE MEDITERRANEA E SUL SUO ASSERVIMENTO ALL'ASSE ATLANTICO ANGLO-AMERICANO
Pubblichiamo l’intervento del filosofo e saggista britannico John Laughland, Direttore di Studi dell’Institut de la Démocratie et de la Coopération di Parigi, pronunciato presso la Sala Gialla di Palazzo dei Normanni in occasione del primo seminario del Colloquium italo-russo dell’IsAG 2014, La Russia e il Mediterraneo: storia, cultura geopolitica , tenutosi a Palermo il 28 aprile 2014.
Vedi anche, a questo riguardo, il nostro articolo Ex Oriente Lux nel banner Risonanze.
Gentili Signore e Signori, stimati colleghi e amici, nel corso del mio intervento desidero avanzare alcune riflessioni relative alla crisi in Ucraina dal punto di vista del Mar Mediterraneo.
A prima vista, né la Russia né l’Ucraina sono direttamente legate al Mediterraneo. La recente riunificazione della Crimea con la Federazione Russa costituisce senza dubbio un elemento importante nelle dinamiche dei rapporti di forza sulle coste del Mar Nero e quindi, implicitamente, nel Mediterraneo stesso. Tuttavia si può affermare che gli ultimi eventi non abbiano modificato in modo sostanziale l’assetto preesistente alla riunificazione: anzi, l’equilibrio tra i diversi attori sarebbe stato sconvolto solo nel caso contrario, qualora la Russia avesse cioè perso il controllo della base navale di Sebastopoli che essa mantiene sin dai tempi dell’Unione Sovietica. Vi sono però tre argomentazioni che consentono di collegare direttamente ciò che accade oggi fra Ucraina e Russia al contesto del Mar Mediterraneo.
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Una prima chiave di lettura per comprendere la situazione ucraina da un punto di vista mediterraneo è il raffronto con la situazione in Siria, un Paese che, a differenza di Kiev, è pienamente e propriamente mediterraneo. Si possono individuare a mio parere almeno sette punti di contatto fra le situazioni occorse nei due Paesi. Il primo è che in entrambe queste crisi internazionali la politica del sistema occidentale è risultata essere del tutto identica, fondata sulla volontà di rovesciare i rispettivi regimi politici. Poco dopo lo scoppio della crisi in Siria, l’Occidente ha infatti preso apertamente posizione a favore del rovesciamento del Presidente Assad. Quasi tre anni fa, nell’agosto 2011, i vertici degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e dell’Unione Europea chiedevano pubblicamente ad Assad di dimettersi (cfr. Syria unrest: World Leaders Calls for Assad to Step, 18/08/2011). Poco dopo, nel marzo 2012, il governo francese è stato il primo Stato europeo a rompere i rapporti diplomatici con Damasco e a riconoscere l’opposizione come il solo interlocutore legittimo del Paese (cfr. La France et la Syrie). In Ucraina abbiamo assistito al medesimo approccio, con la sola differenza dell’esito: mentre in Siria questa tattica si è rivelata fallimentare, la politica del cambio di regime in Ucraina ha avuto sicuramente successo. Non appena Viktor Janukovyč ha rinunciato a firmare l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, le cancellerie occidentali hanno puntato a rovesciarlo. Sia i Paesi dell’UE sia, ovviamente, gli Stati Uniti, hanno riconosciuto il nuovo governo insediatosi a Kiev subito dopo il putsch del 22 febbraio, benché essi stessi avessero in precedenza patrocinato l’accordo del 21 febbraio che manteneva Janukovyč al potere.
Un secondo punto di somiglianza fra la situazione ucraina e quella siriana si riscontra nel fatto che i rispettivi Presidenti erano abbastanza di casa in Occidente prima del cambio di rotta della politica euro-statunitense. Janukovyč, ad esempio, andava spesso a Bruxelles per negoziare direttamente con l’Unione Europea, mentre il Presidente siriano Assad fu invitato nel 2008 dall’allora omologo Nicolas Sarkozy per la festa nazionale francese del 14 luglio sugli Champs Elysées a Parigi.
Terzo punto di somiglianza: nei due casi, la Russia ha adottato una politica che possiamo ben definire controrivoluzionaria. La politica occidentale è infatti tecnicamente rivoluzionaria, nel senso che sostiene atti violenti di gravissima illegalità in violazione delle norme vigenti nei diversi Paesi, come si è visto con il colpo di Stato del 22 febbraio a Kiev e con la ribellione armata in Siria. Un quarto punto di similitudine è la constatazione che in ambedue i contesti i movimenti di opposizione includono elementi estremisti sulla cui violenza fisica e ideologica l’Occidente è ben disposto a chiudere un occhio: in Siria sono gli islamisti, in Ucraina i partiti e i gruppi neonazisti. Tutto ciò è ampiamente favorito dalle narrazioni dei mass media occidentali, che magari ammettono pure la presenza di questi estremisti ma ne relativizzano sistematicamente l’importanza. Il quinto punto di somiglianza è che in entrambi i casi la strategia prescelta punta chiaramente a strappare i due Paesi dai propri contesti geopolitici naturali (l’Europa Orientale e il Vicino Oriente) per inserirli nella sfera d’influenza occidentale.
Un sesto punto in comune alle due situazioni è che questo processo è stato giustificato con un discorso molto ipocrita sulla democratizzazione, come se gli oppositori al potere siriano o ucraino fossero necessariamente liberali e democratici. Il settimo ed ultimo punto di contatto è che la politica occidentale si è mostrata capace non solo di sfruttare i problemi interni ai due Paesi sino a fomentare le guerre civili, ma anche di far leva sulle discordie di respiro regionale, utilizzando cioè Paesi limitrofi e tendenzialmente ostili (Turchia, Arabia Saudita e monarchie del Golfo per la Siria; Polonia e Germania per l’Ucraina) per realizzare i propri obiettivi.
Tutti questi elementi in comune mostrano che l’evidente fallimento della politica occidentale in Siria è stato in qualche modo «compensato» dalla crisi in Ucraina.
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La seconda argomentazione è di carattere più filosofico e concerne il ruolo che il Mediterraneo ha giocato nella storia delle civiltà e sopratutto nella formazione dell’Europa. È evidente a tutti che il bacino mediterraneo abbia costituito l’alveo entro cui è nata e si è sviluppata la cultura europea. Come si dice spesso, le radici della cultura europea si trovano a Gerusalemme, ad Atene e a Roma: tutte città mediterranee, a cui però occorre aggiungere anche Bisanzio-Costantinopoli che è un altro importante vettore dell’eredità greco-romana. Questa storia euro-mediterranea, a cui in molti attribuiscono caratteri universali, è stata però anche una storia di confronti fra le diverse sponde del mare, soprattutto fra il Cristianesimo e l’Islam: quest’ultimo, dal punto di vista europeo, si insediò a Sud e a Est del Mediterraneo nell’VIII secolo. Sembra che lo stesso sostantivo «europei» (europeenses ) sia stato utilizzato per la prima volta dal cronista Isidoro il Giovane poco dopo la battaglia di Poitiers del 732, proprio per identificare i guerrieri cristiani guidati dal Re franco Carlo Martello che sconfissero l’Emirato musulmano di Al-Andalus (Cfr. R. De Mattei, De Europa. Tra radici cristiane e sogni post-moderni, Firenze 2006, p. 84). Non sarebbe dunque corretto affermare che il Mar Mediterraneo rappresenti una zona di valori condivisi: esso è piuttosto un’area in cui le civiltà sono chiamate a confrontarsi, nel bene e nel male. Il Mediterraneo, insomma, non è Occidente, bensì una regione in cui l’Oriente e l’Occidente del Mondo Antico si trovano a stretto contatto.
Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, sembra che nella coscienza europea sia subentrata una nuova visione, quella di un presunto «Occidente» unito e compatto di cui la Grecia e l’eredità bizantina stranamente non farebbero parte. Può sembrare incredibile, ma è stato il politologo statunitense Samuel Huntington a sostenere, nel celeberrimo saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996) che «la Grecia non fa parte della civiltà occidentale». Secondo Huntington, infatti, tale «civiltà occidentale» si fermerebbe alla frontiera fra il cristianesimo latino-germanico (formato da nazioni cattoliche e protestanti) e quello ortodosso (costituito da Grecia e Paesi slavi). E ovviamente l’essenza di questa civiltà occidentale starebbe nei valori del liberalismo, di cui egli ha peraltro fornito un’interpretazione storica assai peculiare. Huntington ritiene, ad esempio, che il nucleo della civiltà occidentale consista nella separazione fra il potere temporale e quello spirituale, al contrario del cesaropapismo tipico del mondo ortodosso e dalla tradizione bizantina. In questa curiosa prospettiva, egli dimentica o ignora che è proprio in Inghilterra, ossia nel Paese occidentale per antonomasia, che il potere temporale e il potere spirituale sono stati, e rimangono a tutt’oggi, completamente fusi e confusi, con il monarca del Regno Unito che è anche Capo della Chiesa nazionale.
Per esprimere questa presunta comunità di valori «occidentali» (che è in realtà la legittimazione di una di scelta di collocamento geopolitico), i Paesi dell’Europa centrale e occidentale, esattamente come taluni ideologi nordamericani, utilizzano un’espressione che sembra mutuata dal contesto mediterraneo. Essi parlano infatti di una comunità «atlantica» od anche «euro-atlantica» e delle sue relative strutture. Paesi come la Polonia, la Bosnia-Erzegovina o la Georgia, che in realtà non hanno nulla a che fare con l’Oceano Atlantico – essendo rispettivamente Paesi rivieraschi dei mari Baltico, Adriatico e Nero – si riferiscono spesso all’integrazione in queste «strutture euro-atlantiche», cioè nella NATO. Da questo punto di vista, l’Atlantico si è sostituito al Mar Mediterraneo sino a divenire una sorta di categoria escatologica in cui i Paesi membri presumono di trovare la propria salvezza.
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La terza argomentazione che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è la seguente: questa Unione Europea che volge le spalle al Mar Mediterraneo non è affatto europea. Si pensi al paradosso per cui, dopo il trattato di Lisbona, che ha istituito la nomina di un Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea (carica attualmente ricoperta dalla britannica Catherine Ashton), l’Europa di fatto non ha più una politica estera. Appare evidente come l’Unione Europea rientri piuttosto in una sorta di «geopolitica dell’outsourcing», in cui essa funge cioè da mandatario per la risoluzione dei problemi di politica estera degli Stati Uniti. La crisi in Ucraina è iniziata quando il governo di Kiev si è rifiutato di siglare l’accordo di associazione con l’UE, ma da quel momento in poi la gestione è stata ad appannaggio sempre più diretto degli Statunitensi. Il Sottosegretario di Stato Victoria Nuland ha personalmente deciso la composizione dell’attuale governo di Kiev, affermando in una nota conversazione telefonica che in questo modo voleva mettere l’Unione Europea fuori dai giochi. L’Ambasciata USA a Kiev ha dato pieno supporto ai manifestanti dell’opposizione e, sul piano diplomatico, sono sempre gli Stati Uniti che si interfacciano direttamente con la Russia e che la criticano violentemente. Sappiamo inoltre dalla dichiarazione di Hillary Clinton del 6 dicembre 2012 che gli USA intendono fare di tutto per impedire la creazione di un’Unione Doganale Eurasiatica efficiente che la Russia sta costruendo con i suoi vicini.
Non è forse un caso che del progetto di Unione Mediterranea, lanciato da Nicolas Sarkozy nel 2008, non rimanga più nulla, mentre l’espansione dell’Unione Europea si svolge ormai unicamente nello spazio dell’Europa centro-orientale. La partnership orientale, di cui lo stesso accordo con l’Ucraina è parte, include infatti soltanto i Paesi di quest’area e non coinvolge nessuno Stato che si affaccia direttamente sul Mediterraneo. Tutta la politica di allargamento dell’UE è dunque una sottocategoria della politica estera statunitense che si affianca al tentativo di creare una zona di libero scambio fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, i cui negoziati e trattative si tengono perlopiù fuori dalla ribalta dei mass media.
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Vorrei dunque concludere con un’ultima riflessione. La crisi in Ucraina non riguarda il Mediterraneo in modo diretto, ma riguarda sicuramente l’Unione Europea in un senso molto profondo. Oserei direi persino che la situazione in Ucraina rappresenta ormai una crisi esistenziale per l’Unione Europea: essa mostra non solo la sua totale assenza come attore storico sul piano della politica mondiale – cosa incredibile per il Vecchio Continente – ma anche il cocente fallimento della moneta unica lanciata con il Trattato di Maastricht più di vent’anni fa. L’Unione Europea sarebbe dovuta divenire un polo di attrazione per l’intero continente, in base alla vecchia formula secondo cui l’integrazione europea, come una bicicletta, deve sempre andare avanti per non cadere. Questa politica ha fallito completamente. E con il fallimento della partnership orientale, cui hanno aderito solo due dei sei Paesi che erano coinvolti nelle trattative, sembriamo assistere oggi ad una caduta in discesa libera dell’Unione. La crisi in Ucraina è la dimostrazione che non tutti i popoli europei vogliono entrare nell’orbita di Bruxelles e che al contrario preferiscono l’indipendenza, o addirittura l’orbita di Mosca. Per camuffare questa verità vengono approntate soluzioni improvvisate, come ad esempio la firma da parte dell’Ucraina di una versione ridotta dell’accordo precedente. Questi gesti di approssimazione e pressapochismo testimoniano in modo eloquente che questa Europa post-storica e, in ultima analisi, post-europea, non sta funzionando e non potrà mai funzionare.
John Laughland,
Colloquium italo-russo dell’IsAG ,
Palermo, 28 aprile 2014